L'Europa conviene

Pubblicato il 10-07-2015

di Guido Bodrato

In Grecia la crisi  e l'esito del referendum rimettono in discussione l’Europa burocratica e finanziaria.

L'Università del Dialogo del Sermig aveva affrontato il tema nel 2012 con l'economista ed editorialista de "La Stampa" Mario Deaglio. Vi riproponiamo una sintesi del suo intervento, corredata da un breve video con le tappe della nascita e della crescita dell'Europa lungo gli anni, seguita da una riflessione di Guido Bodrato, già ministro e parlamentare europeo, sul futuro dell'Unione Europea pubblicata sul n. 7/2012 del mensile Nuovo Progetto.


L'Europa conviene
Mario Deaglio

L’Europa non può essere ridotta solo a questione economica: è un progetto fatto di cultura, idee, diritti, impegni concreti.
Lo ha ricordato più volte l’economista Mario Deaglio, primo ospite della sessione 2012- 2013 dell’Università del Dialogo.
“L’Europa è nata dopo la guerra da un patto di sangue”, ha detto. “Francesi e tedeschi si sono guardati negli occhi e hanno detto “Mai più!”.
Oggi quel ricordo rischia di affievolirsi. I problemi in fondo nascono da qui. Ecco una sintesi del suo intervento.


DOVE VA L’EUROPA
Dal patto di sangue sono passate ormai più di due generazioni e rischiamo di vivere un paradosso. L’Europa rischia di diventare il bere un aperitivo insieme o andare in un altro Paese per l’Erasmus. Oggi, non c’è un’emergenza che ci tiene necessariamente uniti e viviamo un paradosso. Negli anni ’60 e ’70 quello che capitava in Europa era importantissimo. Adesso basta guardare le pagine estere dei nostri giornali: sono ridotte di numero e di quello che succede ai nostri vicini, ci interessa la curiosità, la stranezza. Una volta, le questioni politiche degli altri Paesi ci coinvolgevano molto di più. Oggi, invece, viviamo una sorta di ritorno in noi stessi. L’Europa è come un comodo ombrello: noi speriamo che non piova e cerchiamo di tirare avanti così. L’Europa di oggi è molto più lenta di quella di ieri.

L’EURO
La moneta unica è stata una tappa fondamentale. Alcuni Paesi hanno colto questa opportunità, altri no. L’Italia lo dimostra. Finché abbiamo avuto la lira, avevamo un freno: la bilancia dei pagamenti, la bilancia commerciale. Se in un mese si importava troppo e si esportava troppo poco, il saldo della bilancia era negativo e il cambio della lira immediatamente scendeva. Eravamo dentro un sistema europeo per cui più di tanto non si poteva scendere, quindi dovevamo tirare un freno. E allora si facevano le manovrine, si mettevano piccole imposte, si cercava di veleggiare. Finita l’epoca della lira, il vincolo della bilancia commerciale è caduto. I tedeschi esportavano molto e per tutti. Noi, invece, abbiamo accumulato deficit su deficit di bilancio commerciale, senza preoccuparci. Tanto il conto lo pagava l’euro. È stata una falsa sicurezza perché in realtà noi, sotto questo ombrello, abbiamo disimparato ad investire, non abbiamo più fatto alcuna politica industriale, quindi nessun ragionamento su quali settori ci potevano garantire il futuro. C’è da piangere a pensare che abbiamo buttato via l’Olivetti, la prima impresa informatica europea. Ed è stato così anche per la farmaceutica, la chimica. Come Paese, ci siamo limitati ad una economia con due punte di eccellenza: il made in Italy e la meccanica.

GIOVANI E LAVORO
La disoccupazione giovanile in Italia è una delle più gravi di tutto il continente. A volte, si ha l’idea che la colpa sia dell’Europa. Non è così. Le colpe della perdita di lavoro sono la nostra carenza di politica industriale, investimenti sbagliati, i deficit pubblici portati avanti per troppi anni come niente. (…) C’è anche un processo di educazione nazionale. Ci sono stati casi di imprenditori - penso alla realtà di alcuni call-center – che hanno assunto, licenziato, aperto e chiuso da un momento all’altro, pur di fare soldi. Così non si può andare avanti. Se continuiamo ad avere realtà di questo tipo, il sistema deve riessere educato. Soluzioni miracolistiche non esistono, ma tutto dipenderà da come riusciremo ad uscire dalla crisi. Gli ultimi dati danno un sistema piatto, con qualche piccolo segnale di ripresa. Speriamo di avere fatto noi le cose giuste e anche un po’ di pulizia per avere poi qualche base da cui ripartire.

IDEE E CIVILTÀ
Venuto meno il patto di sangue, i popoli europei oggi devono interrogarsi sulle ragioni per cui rimanere uniti. L’idea di fratellanza, di pace, da sola non basta. Il punto è che in tanti vogliono continuare a fare le cose come le hanno sempre fatte. La spinta verso l’unità è forte solo in alcune fasce della popolazione: ci sono i giovani e chi ha già una certa età. La fascia intermedia cresciuta negli anni del boom economico non capisce, non ha voglia di andare oltre, quindi frena. È per questo che oggi l’Europa è ridotta ad una questione di conti: quanto costa a me, quanto costa a te e via dicendo. L’Europa come ideale è molto appannato, sembra quasi estranea a certi circoli. Al contrario, dovrebbe essere una fonte viva di idee, di civiltà. Pensiamo per esempio alla scuola. Ad oggi, non esiste un testo di storia europeo: ciascun Paese continua ad usare il proprio punto di vista nazionale. In passato, ci sono stati tentativi, qualche testo è stato scritto, ma nessuno lo ha adottato. Questo perché siamo ancora molto legati alle nostre radici, piuttosto che all’idea di investire su un progetto futuro. Ecco, il vero nodo dell’Europa è questo, cioè la non comprensione a livello delle opinioni pubbliche di queste dimensioni del problema.

I RISCHI E IL RUOLO DEI GIOVANI
La sfida che l’Europa ha davanti è fatta anche di tentazioni che coinvolgono i singoli Paesi. La Germania, per esempio, è allettata dalla possibilità di creare una grande area economica ad Est, con la Russia e con la Cina. Oggi la nuova Transiberiana è percorribile in cinque giorni e mezzo. Al tempo stesso, il gasdotto che passa sotto il mar Baltico, porta il gas e il petrolio russo direttamente in Germania. La tentazione è di dire: noi abbiamo l’industria e anche molte risorse finanziarie, voi avete le materie prime. Facciamo uno scambio! Stessa cosa per gli inglesi: la loro tentazione è di andare con gli americani, i canadesi, gli australiani e fare un blocco economico di lingua inglese. Poi ci sono i Portoghesi e il loro rapporto con il Brasile. C’è addirittura una proposta lanciata dalla presidente del Brasile di diventarne il tredicesimo Stato. Infine, la Spagna e i legami con l’Argentina e l’America Latina. In sostanza, rimarremmo noi e i francesi a guardarci negli occhi, di fronte ad una riva sud del Mediterraneo in fibrillazione. Uno scenario simile cosa insegna, soprattutto ai giovani? Che devono seminare, capire che l’Europa non è un progetto dato per scontato. In teoria, potrebbe anche non convenirci più. Ci sono Paesi che potrebbero fare scelte diverse, magari seguendo le proprie radici. In fondo, l’Europa è vissuta per più di mille anni senza avere confini precisi, senza avere delle attribuzioni precise. C’era piuttosto un circuito economico-religioso che la teneva unita. L’Europa di oggi è diversa. La mia generazione fa tutto il possibile per difendere quel progetto di unità iniziato dopo la guerra. Ma i giovani? Oggi siamo abituati a non avere più frontiere. Per me è commovente. Ricordo quando da giovane dovevo passare il confine a Bardonecchia. Era una cosa incredibile! Oggi, la mobilità è vissuta come una cosa normale. Eppure, non è così. È piuttosto il frutto migliore del cammino di integrazione. I giovani non devono dimenticarlo mai. Non solo, devono capire che se si mangia il frutto, senza seminare, il rischio è quello di non ritrovarsi tra le mani più nulla.

Incontro Università del Dialogo


Video con le tappe della nascita e della crescita dell'Europa lungo gli anni


L’AUTUNNO DELL’UNIONE EUROPEA
Guido Bodrato

Per il vecchio continente è finito un ciclo? La crisi e le polemiche tra i Paesi mettono a rischio il sogno di unità? Le risposte non arrivano solo dall'austerity.

La crisi finanziaria esplosa quattro anni or sono negli Stati Uniti ha messo in evidenza la debolezza della moneta unica europea nei confronti di manovre speculative rese più violente dalla mondializzazione dei mercati. In realtà stiamo parlando di una crisi che è la manifestazione finale della deregulation finanziaria, di un sistema che ha esaltato la mobilità dei capitali e le bolle speculative immobiliari ed ha fatto cadere nella povertà milioni di americani. Quale è, in questa situazione, il male oscuro che minaccia, attraverso la moneta unica, la stessa sopravvivenza dell’Unione europea? C’è indubbiamente una questione di leadership: non è necessario risalire alla primavera della Comunità europea, guidata negli anni ‘50 da Adenauer, Schuman e De Gasperi. Allora l’Europa si lasciava alle spalle un secolo di guerre civili europee e la tragedia del nazismo. Allora con la Alleanza atlantica la Comunità dei sei (Repubblica Federale Tedesca, Francia, Italia, Olanda, Belgio, Lussemburgo) resisteva alla minaccia dell’Unione Sovietica e si è allargata alla Gran Bretagna, alla Danimarca, alla Svezia, all’insegna del mercato unico e del welfare europeo.

A metà degli anni ’70, la Comunità europea ha deciso per l’elezione diretta del parlamento di Strasburgo ed è diventata l’approdo alla democrazia per la Spagna, il Portogallo e la Grecia. A piccoli passi la Comunità dei sei è diventata una Unione di quindici Paesi, con il sogno dell’Europa “politica”. L’allargamento dei confini si è accompagnato ad una crescita delle competenze comunitarie. Ma questa crescita straordinaria si è intrecciata con una contraddizione, con l’indebolimento della “spinta propulsiva federalista” e il diffondersi dell’euroscetticismo di matrice britannica. È prevalso l’interesse “economico” proprio negli anni in cui crollava il Muro di Berlino e si affermava la globalizzazione, mentre sarebbe stato ancora più importante portare a compimento il progetto dell’Europa politica.

All’inizio del nuovo secolo, si stava svolgendo un decisivo confronto tra i sostenitori del modello federalista – i quali consideravano la moneta unica il punto di forza del mercato unico – e l’avanguardia di un processo storico che avrebbe portato all’unione politica, ed i difensori della sovranità nazionale, di un mito ormai logorato dalla globalizzazione, che riducevano l’europeismo ad un mercato più allargato. In quella fase l’urgenza dell’allargamento dell’Unione europea ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia, molti dei quali avevano già aderito alla Nato, ha spinto il Vertice di Nizza (2000) a frenare sulla costituzione europea, e ad accelerare sull’”allargamento” dell’Ue. Ora è chiaro che è stato commesso un errore strategico. L’allargamento dell’Unione a Paesi dell’Est, che avevano riconquistato da poco l’indipendenza da Mosca, ha infatti rafforzato le tendenze “sovraniste” di governi nazionali che – aderendo all’Unione europea - avrebbero dovuto trasferire a Bruxelles parte della sovranità appena riconquistata. L’allargamento dei confini ha così rafforzato le tendenze euroscettiche, che hanno il punto di forza nella Gran Bretagna; ed infine ha rafforzato – attraverso sotterranee correnti populiste, consolidate dal generale diffondersi delle spinte all’immigrazione di massa, dal sud del mondo verso i Paesi più ricchi – le stesse nostalgie nazionaliste nascoste nelle viscere della vecchia Europa.

Così il progetto di Trattato costituente dell’Europa “unita nelle diversità”, che proponeva di trasferire una quota di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni comunitarie, cioè al Parlamento di Strasburgo ed alla Commissione europea, prima è stato rallentato e poi è stato affossato dai referendum francese ed olandese (2005), caratterizzati entrambi dalla convergenza nel voto contro il trattato costituente delle sinistre estreme, che chiedevano un’Europa “più sociale”, e delle destre euroscettiche e populiste, contrarie comunque all’integrazione europea ed all’Unione politica. In quella stagione, a conclusione della mia esperienza di parlamentare europeo, ho cercato di mettere in evidenza in un libro di memorie (l’“Europa impossibile”) le ragioni del declino dell’idea federalista che ha le sue radici nella resistenza europea, e dell’emergere di una generazione non più appassionata all’idea cui si sono ispirate per mezzo secolo il modello di democrazia, di solidarietà e di pace delle grandi famiglie politiche europee democristiane, liberali e socialdemocratiche.

Quando, con il Trattato di Lisbona, è stato rilanciato il dibattito sulla costituzione europea, il baricentro di questo modello di Unione è stato spostato a favore dei vertici intergovernativi, cioè del Consiglio europeo, mentre è stato indebolito il ruolo delle istituzioni comunitarie. Una vittoria dei conservatori britannici, degli euroscettici, dei sovranisti, che ha inevitabilmente rafforzato il ruolo dei governi nazionali, e tra questi della Germania. È sempre più evidente che ormai in occasione dei vertici tra i rappresentanti dei governi europei, le tensioni interne ad ogni Paese, cioè la dimensione nazionale delle questioni politiche, contano più delle questioni comunitarie. L’idea dell’Unione “politica” ha fatto i conti con questo indebolimento dell’idea comunitaria, dell’Europa dei popoli.

L’Unione europea appare ormai prigioniera dell’Europa delle nazioni. E di questa contraddizione è prigioniera anche il cancelliere della Repubblica federale. Angela Merkel rivendica la guida del progetto federalista, pone cioè al primo posto – prima dell’obiettivo della solidarietà – quello dell’unione politica. Ma nello stesso momento si oppone alle proposte di Mario Monti e di François Hollande di camminare subito in direzione dell’Europa politica con il “fondo salva Stati” ed il “meccanismo economico di stabilità”, di difendere cioè l’euro dagli attacchi della speculazione internazionale. Eppure la Germania non ignora che difendendo l’euro e difendendo i Paesi mediterranei più esposti alla crisi, difende anche se stessa, la sua economia e la sua centralità in un’Europa che conta meno dell’8 per cento della popolazione del mondo.

In realtà, come ha sottolineato Amartya Sen, “l’aspetto forse più inquietante del malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai dictat finanziari imposti non solo dai leader dell’Ue e dalla Banca Centrale Europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci”. Così una politica di austerity, tutta concentrata sui bilanci nazionali, sui tagli alla spesa pubblica, prevale su una politica che punti sulla crescita e sull’occupazione e si preoccupi della solidarietà tra i Paesi dell’Ue, salvando così l’Europa dal riflusso nazionalistico.

La dissoluzione delle famiglie europeiste (il Partito Popolare Europeo non è che l’ombra della Dc europea del ‘900) e l’assenza di leadership confrontabili con quelle dei padri fondatori della Comunità europea, quasi tutti aderenti alla famiglia democristiana, ha molto a che fare con il declino della stessa idea dell’Europa politica. E questo declino ha favorito il riflusso di una parte importante degli elettori, anche in Paesi di antica tradizione europeista, verso le tendenze nazionaliste, proprio nel momento in cui, con la mondializzazione dei mercati, sarebbe più importante la costruzione di un soggetto politico forte, in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti, la Russia, la Cina ed il Brasile.

Siamo all’autunno dell’Unione europea? La crisi che l’Italia sta attraversando e che toglie speranze alle giovani generazioni, è la metafora della crisi di valori che minaccia l’Europa: se l’Europa non riscopre la sua anima democratica e non sa fare i conti con la sua storia, che è per molti aspetti storia cristiana, se pensa di competere con il resto del mondo solo in forza della sua economia, non potrà non arrendersi ai diktat dei mercati ed assistere al naufragio del welfare, cioè del modello di società cui si ispira, negli Stati Uniti, lo stesso Barak Obama E per l’Italia sarebbe un disastro, da cui non la salverebbero certamente il populismo ed il fantasma del nazionalismo.

Guido Bodrato da: NP 7/2012

 

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