Franco Leoni Lautizi si è spostato in Cielo
Pubblicato il 18-04-2021
Era uno degli ultimi sopravvissuti della strage di Marzabotto.
I nazisti gli uccisero la mamma incinta del fratellino, il papà, la nonna, gran parte della sua famiglia.
Franco non aveva più parole di odio, ma di perdono, di speranza.
Testimone di quanto assurda e inutile sia la guerra.
È l'eredità che ha lasciato a migliaia di giovani nella sua vita, anche ai partecipanti dell'Appuntamento dei Giovani della Pace di Bergamo nel maggio del 2019.
Oggi mi piace pensarlo faccia a faccia con Dio, con la sua famiglia, con l'eterna Gioia.
Grazie Franco, non ti dimenticheremo mai!
Ernesto Olivero
Comunicato dell'dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra
Articolo di Franco Leoni sulla rivista del SERMIG - NUOVO PROGETTO
Era bella mia madre
La storia terribile di Franco Leoni Lautizi, uno degli ultimi sopravvissuti della strage di Marzabotto. Nel 1944, i nazisti uccisero oltre 770 civili in soli 5 giorni. 216 erano bambini. Franco perse la mamma incinta, la nonna e il padre.
Era bella mia madre,
aveva appena 23 anni quel 29 settembre.
Mi teneva per mano lungo la stradina che scendeva al rifugio
e si lamentava parchè a breve tempo si apprestava a dare luce a un’altra vita,
confortata dalla nonna che a sua volta la sosteneva.
Era bella mia madre
anche nel dolore delle doglie, poi il crepitio dei colpi di mitraglia ci lasciò sgomenti.
Colpita al ventre si accorse di perdere tutto in un attimo.
Le sue mani sporche di sangue, lo sguardo perso negli occhi sbarrati di mia nonna,
si teneva il ventre cercando di avvolgermi al suo corpo per ripararmi dal piombo
come una chioccia protegge il pulcino sotto le ali.
I suoi urli di disperazione e di dolore erano quasi inumani,
ma anche in qui momenti aveva una carezza per me.
Se c’è qualcuno in cielo non può ignorare ciò che è sulla terra.
Era una ragazzina mia madre!
Un incubo che mi perseguita per la vita, ma nello stesso tempo rivedo il sorriso dolce di mia madre.
Era veramente bella mia madre.
La forza della vita
Quel giorno, già pomeriggio, mia madre che aspettava un bambino, ebbe le doglie, ma in quel luogo a causa dello spazio e delle persone, non era possibile partorire. Mia nonna Amelia decise di portarla a casa per avere un locale adatto alla situazione. Io mi aggregai a loro. La mamma era in uno stato critico di dolore, a fatica anche se aiutata e
sostenuta arrivammo al casolare.
Il fienile della stalla era già quasi distrutto dal fuoco e l’abitazione cominciava ad ardere, un odore acre di carburante e di carne bruciata aleggiava nell’aria. Non sapendo cosa fare, la nonna entrò per prendere l’indispensabile e decise di tornare al rifugio.
Altre soluzioni non erano possibili, la mamma era all’estremo delle forze e lanonna doveva sostenerla con tutte le sue energie.
Ritornando indietro a poca distanza dal rifugio, una pattuglia di tedeschi, composta da sette o otto nazisti, che saliva dal poggio di ca’ del Prete a ca’ di Dorino. cominciarono a mitragliarci.
La nonna ci scaraventò nel fosso cercando un riparo, ma eravamo in verticale al tiro e le pallottole ci fischiavano attorno. Unica soluzione era un pagliaio di fieno a pochi metri nel campo; ci buttammo verso quello che sembrava la nostra salvezza, ma fu tutto inutile.
La nonna fu colpita in fronte e rimase immobile sul sentiero, io e la mamma riuscimmo a raggiungerlo ma eravamo rimasti colpiti: io nella schiena e nella pancia, la mamma al ventre. Presa dal dolore delle ferite e dalle doglie, urlava, come impazzita, tutta la sua disperazione e cercava di proteggermi. I tedeschi continuavano a mitragliare il pagliaio.
Il tutto continuò per un tempo interminabile. Alla fine, lei si accasciò e non sentendo più lamenti smisero di sparare. Io mi accucciai accanto alla mamma e rimasi abbracciato a lei finoa notte quando alcune persone uscirono dal rifugio e vennero a prendermi. Mi sdraiarono con una coperta sopra una fascina di legna che mi faceva da letto cercando di togliermi i vestiti e pulirmi il sangue delle ferite.
Ero in uno stato di torpore e di incoscienza, ma percepivo i discorsi degli adulti che mi erano intorno. Sentivo che avevano seppellito la mamma e la nonna avvolte in un lenzuolo nella radura del bosco.
Avevano preparato una buca anche per me. Poi sentii la voce del babbo che era uscito dal bosco per vedere cosa era successo.
Piangeva disperato, si lamentava: gli avevano ucciso la mamma, la moglie, il fratello Nello e io che stavo per andarmene.
Diceva che per lui la vita non aveva più valore e si sarebbe fatto prendere.
Giorni dopo, alcuni conoscenti lo videro prigioniero dei nazisti con l’amico Augusto, fabbro della Quercia. I tedeschi se ne servirono per portare le munizioni per un periodo di alcuni giorni, poi li fucilarono sul bordo un piccolo torrente. Li ritrovammo esattamente un anno dopo per caso, impigliati in un’ansa del ruscello. Li abbiamo riconosciuti dagli indumenti e dalle poche cose che avevano in tasca. Di mio padre ricordo la penna stilografica spaccata in due da una pallottola.
L’amore della mamma da quel mondo nuovo in cui era andata, mi ha aiutato a superare la crisi. Mi ripresi e la gentedicevache si era trattato di un miracolo. (...)
Ho dovuto ricominciare una nuova vita. A volte avrei dovuto avere la forza di un leone, ma di Leoni avevo solo il cognome. Ho dovuto dire addio troppo presto a tutti i miei cari e buona parte di me se ne andata con loro.
Spero che da dove sono continuino a proteggermi, non potrò mai dimenticarli.