Usciamo verso le periferie dell’umano

Pubblicato il 17-05-2016

di Rosanna Tabasso

di Rosanna Tabasso - L’apertura più importante è quella del nostro cuore. Uscire fa parte della vita della Fraternità della Speranza. Quando nel 1983 siamo entrati nel vecchio arsenale militare di Torino, un rudere oramai in disuso, in realtà per noi si è trattato di un uscire. Uscire da noi stessi, dalle nostre certezze. In quel rudere vedevamo già un segno di speranza per la gente smarrita, la gente povera di tutto il mondo. Non un luogo solo per noi, per chi professa la nostra stessa fede, un luogo chiuso, ma un luogo-segno per le donne e gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti. Entrammo così a nome di tutti, con un sogno nel cuore: l’Arsenale della Pace sarebbe stato una casa sempre aperta, con qualcuno sempre pronto ad ascoltare, a fasciare, a consolare.

Dal portone spalancato sulla piazza, insieme ai carichi di mattoni, iniziarono presto ad arrivare donne e uomini dalle storie impossibili, invisibili agli occhi della gente, senza speranza. Il primo fu un detenuto, ex terrorista cresciuto a Torino. Scriveva dal carcere speciale di Palmi, raccontava la sua storia e chiedeva, anche a nome dei suoi compagni, di poter dialogare con noi. Quell'incontro ci ha cambiato la vita. Abbiamo preso la decisione di non giudicare mai l’altro per il suo essere diverso, per i suoi errori. Pochi anni dopo, nel gennaio del 1998, aprimmo le nostre porte all'accoglienza di un popolo di invisibili che vive ai margini della società, nelle “periferie” che papa Francesco oggi indica come priorità.

Accogliere è diventata la nostra palestra quotidiana per imparare il cuore misericordioso e compassionevole di Dio. Ci accorgevamo che l’apertura più importante era quella del nostro cuore, dilatato dall'esperienza personale della misericordia. Quando ti lasci toccare dal dolore dell’altro, quando non ti difendi da lui, ricevi la grazia della compassione e tu stesso sei toccato dalla misericordia che è dono di Dio. Mentre soccorri il povero fai esperienza di uscire da te stesso, dal tuo egoismo. Andare verso le periferie è anzitutto prendere il largo dal proprio io, entrare in una formazione permanente, umana e spirituale, che investe l’intera persona, la apre a nuove esperienze, attiva risorse che non sapeva di avere. Idee e concretezza si fondono e coinvolgono mente e cuore, intelligenza e volontà. Si diventa persone unificate, che sperimentano l’amore di Dio e desiderano restituirlo agli altri; persone che scelgono di vivere in profondità il Vangelo per portare con semplicità vita e non morte. È il nuovo umanesimo, il cui programma sono le Beatitudini.

Quando impariamo a uscire da noi stessi, i confini della nostra vita si dilatano improvvisamente. Siamo toccati dal singolo uomo ferito al bordo della strada, ma anche dai grandi problemi dell’umanità: fame, sottosviluppo, guerre, terrorismo, masse di profughi respinti, parcheggiati, annegati; nuove frontiere della genetica che ribaltano i fondamenti della vita; rete globale delle armi e della droga; dipendenze, disoccupazione, intolleranza… Come pure le nuove sfide dell’ecologia, lo sfruttamento del pianeta, le energie rinnovabili. Tutto ci interpella, a 360°. Non potremo fare tutto, ma essere partecipi di tutto sì. Soprattutto possiamo capire l’interdipendenza dei problemi, e come al centro di ogni scelta ci sia sempre una persona che può decidere per il bene o per il male.

Non ci spaventiamo perché non siamo soli. Alle periferie dell’umano ci andiamo con un compagno di strada: Gesù. Andiamo con il desiderio di diventare uomini e donne di preghiera e di azione, vivendo alla sua Presenza 24 ore su 24, per essere un segno visibile della sua bontà convinti che, in noi, Lui traspare ed evangelizza. Andiamo con il carisma della speranza e la spiritualità della Presenza, che il Signore ha donato alla Fraternità. Andiamo con Gesù, ma non da soli, con altri. Non bastano pochi uomini di buona volontà. C’è bisogno di intere comunità, e subito! Soli si viene schiacciati dalla complessità del quotidiano, come comunità si può essere segno di contraddizione, si può ricostruire un tessuto nuovo, vivere e far vivere esperienze concrete di amore e misericordia.

Oggi per tanti la Chiesa non è più segno di misericordia; è anzi sinonimo di severità, di noia, di divieti. Sarebbe bello invece che la gente la vedesse con le braccia aperte, come Gesù l’ha pensata. Quando Gesù dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28) dà un volto preciso alla sua Chiesa. Non possiamo ignorarlo, né accontentarci di essere quelli che “stanno dentro”. Cerchiamo invece di convertirci al Vangelo, cerchiamo di essere noi Fraternità che ama con il cuore grande del Padre e con la compassione di Gesù, soprattutto verso quelli che il mondo giudica persi. È urgente che torniamo a declinare così il comando dell’amore, il cuore della nostra fede. Nel segno di una concretezza credibile. Pensiamo ai discepoli di Gesù, ai primi cristiani. Con tutte le loro sofferenze, portarono una testimonianza decisiva nel mondo pagano, perché erano credibili, e quindi autorevoli. L’annuncio era la loro vita, davvero intrisa di Gesù. Ora questa sfida è affidata a noi. Abbiamo davvero la possibilità di indicare la strada di una nuova umanità improntata all'amore. Essere un sì che attrae e che diventa bene per quelli che ci avvicinano. Donne e uomini di misericordia, il sale della terra, come ci ha insegnato Gesù.







Rubrica di NUOVO PROGETTO


 

 

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