Il premio San Giuseppe è nato nel 2000; è destinato a persone che si distinguono nel realizzare progetti nel sociale e utilità pubblica. Quest’anno è stato designato Ernesto Olivero.
Riceverà il riconoscimento da Roberto Cerrato, presidente del centro culturale San Giuseppe, domenica 3 dicembre alle 17.30 nella chiesa di San Giuseppe. Nel 1964, a Torino, Olivero ha fondato il Sermig (Servizio missionario giovani). Insieme a lui, la moglie Maria e ragazzi «decisi a sconfiggere la fame con opere di giustizia, a promuovere sviluppo, a vivere la solidarietà verso i più poveri», si legge nella motivazione.
Olivero, che significato attribuisce a questo premio?
«Quando ho ricevuto la notizia e ho sentito di san Giuseppe mi si è subito aperto il cuore. Per lui ho una particolare devozione, dovuta a miei intimi motivi. Al centro hanno fatto i loro ragionamenti, mi fa piacere abbiano scelto me, spero solo di non deludere».
Rispetto a quando ha iniziato la sua opera, i poveri sono aumentati?
«A dismisura. Anche a causa dell’afflusso di stranieri, i quali un tempo rappresentavano solo una piccola percentuale. Purtroppo il problema tenderà ad aumentare, la nostra comunità dovrà far fronte a costi maggiori per prevenire e aiutare nelle tante situazioni che si creano. Ci tengo a dire che il nostro approccio è sempre stato leale. Abbiamo accettato la sfida di aiutare queste grandi masse di poveri, dovendo allargare enormemente i nostri orizzonti. Siamo convinti non basti offrire un piatto di minestra, ma dare la possibilità di trovare un lavoro. O di curarsi con dignità e mandare i figli a scuola. Insomma, abbiamo il desiderio che i poveri diventino soci della nostra storia; per questo li vogliamo coinvolgere nella nostra avventura».
Parlando di stranieri, anche nelle nostre campagne si sono insinuati sfruttamento e caporalato.
«È qualcosa di totalmente ingiusto, che le istituzioni dovrebbero eliminare. Tali fenomeni non dovrebbero esistere, ma se ci sono vuol dire che, da qualche parte, c’è un assenso. Sono certo che, se si volesse, sarebbe possibile fare le cose per bene. Da noi, per esempio, abbiamo mai avuto delle situazioni irregolari o poco chiare».
Cosa va fatto, oggi, per preservare la pace?
«Dirò una cosa che non va di moda. Il mondo intero deve fare un ragionamento. Le alternative sono due. La prima è entrare in una terza guerra mondiale, combattuta anche con le armi atomiche. Altrimenti, occorre avere il coraggio di sedersi a un tavolo e decidere insieme. Bisogna assolutamente eliminare ogni tipo di arma e non fabbricarne più. Quando, a febbraio, è iniziata questa sciagurata guerra nel cuore dell’Europa, all’Arsenale della pace si è attivata una grande rete di solidarietà e, in pochi giorni, abbiamo fatto arrivare novanta Tir in Ucraina con del cibo e medicinali». Nella stessa occasione la fondazione Cagnasso, con il presidente Renato Cagnasso, darà un contributo alle associazioni Alice, Ail, Esoes, Ho cura, comunità l’Accoglienza, Il pane di san Teobaldo, Progetto Betania, don Gigi Alessandria (Caritas), FuturAlba, Proteggere insieme e Croce rossa. Tutti i giorni fino al 20 dicembre, infine, sempre nella chiesa di San Giuseppe sarà visitabile la mostra d’arte corale “Tratti di pace”.
Davide Barile
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