In ogni dove

Pubblicato il 05-09-2021

di Stefano Caredda

Li chiamano giovani "restanti" e sono – per dirla facile – quelli che vivono e vogliono continuare a vivere lontano dalle grandi città. Quelli cioè che non si rassegnano a dover abbandonare i luoghi in cui sono nati e cresciuti, o in cui semplicemente hanno scelto di vivere: giovani che ora chiedono un cambio di passo perché il tema diventi uno dei punti chiave delle politiche del futuro.
Le cosiddette "aree interne" ricoprono il 60% del Paese: in questi territori vive il 22% della popolazione italiana, cioè poco più di un cittadino su cinque. Qui i giovani sono circa il 20% della popolazione e più della metà di loro ha (o avrebbe) intenzione di restare, pianificando in quei territori la propria vita e il proprio lavoro. È una scelta dovuta in primo luogo all'attenzione alla qualità della vita dal punto di vista ambientale e sociale. Dopo più di 60 anni infatti il modello urbano-centrico, che ha caratterizzato la vita italiana almeno a partire dal boom economico degli anni Sessanta del secolo scorso, è entrato in crisi, e si è fatta strada l'idea che uno sviluppo sostenibile debba passare anche dal disinnescare un meccanismo di migrazione verso le città che ormai appare legato a vecchie logiche.

Non che il tema finora non sia stato trattato: un Comitato Tecnico Aree Interne del Ministero per il Sud e la Coesione territoriale si prefigge la realizzazione della "Strategia nazionale aree interne" (Snai), che altro non è che una politica nazionale di sviluppo e coesione territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese. In particolare sono state finora individuate 72 aree (oltre mille comuni e due milioni di abitanti) in cui attuare interventi, alcuni già partiti, altri in attesa dei necessari accordi fra tutte le amministrazioni pubbliche coinvolte.

Ciò però che viene messo in evidenza dai giovani dell'Officina Giovani Aree Interne, chiamati ad elaborare un documento che sarà presentato all'attenzione del governo, è che una "rivincita delle aree interne" passa per la presenza di più partecipazione, più formazione, più cultura e più welfare. Nella gran parte dei territori infatti non ci sono scuole superiori (il primo passo della "fuga") ma soprattutto manca un'offerta formativa capace di intercettare davvero le possibilità lavorative che le diverse aree interne possono offrire. Opportunità che ci sono, perché "rimanere" non significa per forza diventare agricoltori o allevatori (c'è anche questo naturalmente, in forme imprenditoriali adeguate ai tempi). Inoltre, ci vuole anche cultura, ci vogliono servizi pubblici (come il trasporto pubblico a chiamata), ci vogliono politiche sociali con servizi di prossimità che partano dai bisogni delle persone. Insomma, città e aree interne non devono vivere in antitesi (le prime che attraggono innovazione e investimenti, le altre che vengono abbandonate), ma possono tessere nuovi rapporti interdipendenti e aiutarsi. Il futuro del Paese si gioca in ogni dove.


Stefano Caredda
NP maggio 2021

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