Il giudice ragazzino

Pubblicato il 16-03-2021

di Domenico Agasso

Trent’anni dopo esse­re stato trucidato dai mafiosi della «Stidda», sale agli onori degli al­tari per volere di Jorge Mario Bergoglio. Sarà beato Rosario Livatino, il giudice ra­gazzino, assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, a 37 anni. Di Livatino, nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, la Santa Sede ha riconosciuto il martirio in odium fidei. È questo il contenuto del decreto di cui papa Francesco ha autorizzato la promulgazione, il 22 di­cembre scorso, nel corso di un'udienza col cardinale Marcello Semeraro, pre­fetto della Congregazione per le Cause dei Santi. E qualche ora dopo il magi­strato Caselli ha ricordato la frase più celebre di Livantino: «Non importa essere credenti, ma credibili». «Sub tutela Dei» (Sotto la tutela di Dio) è il motto di Livatino, la sigla con cui chiudeva le annotazioni in agenda.

Nel tempo, sono stati raccolti do­cumenti e testimonianze per circa 4mila pagine a sostegno del processo di canonizzazione di Livatino. Tra i testimoni, anche uno dei killer, Gaeta­no Puzzangaro, che sconta l'ergastolo. Erano passate da poco le 8,30 quel­la mattina. Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore ros­so, da Canicattì dove abitava, stava andando al tribunale di Agrigento, quando è stato avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso. Stava percorrendo il viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barrie­ra di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Livatino ha tentato una dispe­rata fuga, inutilmente. Sceso dal mez­zo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi.

In base alla sentenza che ha condan­nato al carcere a vita sicari e man­danti, Livatino è stato ucciso per­ché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, lad­dove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur in­consapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'e­spansione della mafia». È emerso che chi ordinò il delitto co­nosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo non poteva essere un interlocutore della criminalità. Anda­va quindi ucciso.

Dopo la sua morte, nel 1993 papa san Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i suoi genitori, aveva defini­to Livatino «un martire della giustizia e indirettamente della fede». Anche papa Francesco ha lodato la figura del magistrato: parlando nel novembre del 2019 ai membri del Centro Studi Rosa­rio Livatino, lo ha definito «un esem­pio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel cam­po del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l'attualità delle sue riflessioni».

 

Domenico Agasso Jr
NP gennaio 2021

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