Il dono che porta frutto

Pubblicato il 19-03-2023

di Cesare Falletti

Oggi si parla molto di bene comune. Speriamo che lo si faccia con un cammino di conversione dagli egoismi dei singoli verso un pensiero più “globale”, verso qualcosa che distolga dal pensiero attaccato a sé e al proprio tornaconto, per comprendere che, per stare davvero bene, occorre che tutti intorno a noi stiano bene e che non è possibile essere felici se intorno a noi la sofferenza e l’abbandono lasciano degradare le persone.

Il bene comune richiede puro dono, abnegazione, sacrificio di sé per gli altri? Anche questo, ma forse non solamente. Un detto piemontese dice all’incirca così: «Chi non sa occuparsi degli altri alla fine non saprà neanche occuparsi di se stesso». Siamo lontani dal famoso: mors tua, vita mea (La tua morte è la mia vita), che ha sigillato la necessità che se qualcuno vuole crescere lo può fare con la decrescita, se non la morte, di qualcun altro, o, se vuole che l’altro cresca lui deve morire. Se non si è capaci, o non si vuole, avere una sensibilità che raggiunga il fratello nel suo bisogno, nella sua povertà, di ogni genere, e non si è mossi “dal cuore” per corrergli incontro e aiutarlo ad avanzare nella difficoltà in cui è immerso, si forma intorno al cuore, alla volontà, anche all’intelligenza, un muro che nasconde la vita e fa illudere di essere in un regno. Il Re incontrato dal Piccolo Principe credeva di avere un gran dominio e un gran potere, ma in realtà non aveva nessuno su cui comandare e nessuno con cui avere una relazione di un qualunque genere. La sua vita era grigia. Era solo e non poteva neanche occuparsi di se stesso e cercare di avere una vita bella, perché non sapeva cosa volesse dire avere un orizzonte di gioia, di pace e di bene.

Il bene, infatti, non è tale e non lo si gusta, se non lo si dona agli altri e la cura di sé non è possibile se non ci si occupa di aver cura degli altri. Molti, troppi, pensano: «Basta che stia bene io» e che ognuno deve occuparsi della propria vita e cercare il proprio bene. Ma se il bene non lo facciamo agli altri, non sappiamo neppure cosa esso possa voler dire per noi. Gesù ha espresso questo concetto in una regola d’oro: «Quello che vuoi che sia fatto a te, fallo agli altri». O, «Quello che non vuoi sia fatto a te non farlo agli altri». Se l’esperienza personale ci suggerisce ciò che è buono per noi e, istruiti per ciò che può essere buono per gli altri non lo facciamo, perdiamo il senso di ciò che può essere buono per noi, perché se il bene non si diffonde, rimane sterile e muore.

Il più grande servizio che possiamo fare a noi stessi è quello di servire gli altri: in questo modo in noi le cose trovano un senso, un ordine, una direzione verso cui camminare e vivere una vita sempre più piena. A girare intorno a sé la vita ammuffisce.
La ricerca del bene comune sviluppa in noi tutte le nostre potenzialità. Occorre più capacità di invenzione, fantasia, entusiasmo per occuparsi del bene di tutti, che per pensare solo a se stessi. Per questo, infatti, basterebbe l’istinto che fa lottare per ottenere secondo i desideri e i bisogni, ma non lascia posto a cose belle e che danno la grandezza alla persona umana come il genio, lo sviluppo delle capacità e soprattutto l’amicizia. Se gli altri interessano solo per quanto ci danno e per il nostro crescere, il nostro orizzonte si restringe e prima o poi, al più tardi quando le forze cominciano a mancare, nel nostro campo si raccoglie solo triste sterilità.

Gesù ha parlato di far fruttare i talenti che abbiamo. A nasconderli non ne godiamo il frutto, né gli altri né noi. Ma perché essi crescano occorre rischiare la perdita e buttare nella ricchezza comune il nostro piccolo peculio. Allora godremo della sua capacità di crescere. Se non sappiamo servire gli altri, non serviremo neanche noi stessi.


Cesare Falletti
NP dcembre 2022

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