Lo sgurdo che fa vivere

Pubblicato il 06-04-2024

di Cesare Falletti

Quando guardo i miei fratelli del monastero, coloro che vivono con me quotidianamente in uno spazio limitato, non posso immaginarmi in una “clausura”: mi sento immerso nella massa umana, che ha un volto, un’anima, che si caratterizza con tre tratti: ciascuno è povero di una propria povertà e questa povertà diventa possibilità di vivere insieme nel lento e faticoso lavoro di avere un’anima sola e un cuore solo. Si è uniti grazie ai vuoti che sono porte aperte all’accoglienza dell’altro. La povertà è sorgente di fame.
Oggi nel nostro mondo occidentale non abbiamo fame di pane, ma di sguardi benevoli, affettuosi, che riconoscono in te una persona degna di essere accolta e stimata così com’è, una persona di cui si apprezzano i valori.

Il secondo tratto è, dunque, che ciascuno ha una propria bellezza originale, riflesso dello splendore di Dio, che non ha considerato tale splendore come proprietà privata non condivisibile, ma sorgente di comunione che si estende all’infinito. Ciascuno porta in sé una bellezza che lo fa essere simile a Dio, anche se nella sua povertà nasconde talvolta di più, talvolta di meno, questa bellezza e questa somiglianza con tutto ciò che ha sfigurato l’uomo e che deve essere salvato.

Il terzo tratto è che ciascuno ha una fame inestinguibile, fame di essere amato e di poter amare. Questa fame è un tormento, ma sa anche rendere gioiosi per ciò che già si riceve, eppure non lascia mai sazi.
Il vero progresso della persona umana sta in queste due cose messe insieme: essere contenti e gioiosi in ogni circostanza, ma desiderare ancora un di più, o piuttosto un meglio. Questo desiderio è una povertà accettata, che non schiaccia né paralizza.
Piuttosto stimola verso una crescita. L’umiltà ci rende contenti, la grandezza della nostra natura ci dà sete di un di più.

Tutti abbiamo bisogno di essere amati e abbiamo fame di amore: se non ne riceviamo nemmeno una briciola ci appassiamo fino a morirne. Di questo dobbiamo ricordarci quando guardiamo ogni nostro fratello o sorella: la sua vita dipende anche da ciascuno di noi, che possiamo dare almeno una briciola di amore, anche quando non possiamo fare altro. La nostra povertà rischia di farci vergognare e invece di dare quella briciola d’amore, magari solo uno sguardo sorridente, un saluto affettuoso, il riconoscimento della persona, passiamo voltando la testa e facendo finta di non vedere. Non si passa davanti a un povero che chiede l’elemosina senza dare un segno di riconoscimento, un saluto, una parola, anche se non si può o non si vuole dare nulla.
La cosa più contraria all’amore non è l’odio, ma l’indifferenza, che annulla l’altro, non lo fa esistere e lo lascia affamato di un qualunque segno che riconosca la sua presenza.

Parlavo della mia comunità: il giusto equilibrio fra solitudine e comunione fraterna non è facile.
La Regola parla del silenzio, ma anche della carità fraterna, parla della discrezione, ma evangelicamente anche del fatto di essere vivi per tutti e non solo per la propria perfezione. Il disprezzo è un assassino con le mani pulite. Ma il cuore non lo è.

Quando ci si trova davanti a una persona che sembra cattiva, violenta, o almeno che non segue le regole sociali, bisogna sempre interrogarsi se è amata, se lo sguardo che poniamo su di lei è accogliente e pronto ad aiutare, a curare le ferite, se la sua solitudine non si nasconde in quella trasgressione che ci turba. Coloro che hanno salvato tanti giovani o anche malfattori anziani lo hanno fatto più con lo sguardo che con le opere.


Cesare Falletti
NP febbraio 2024

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