Sopravvivere nella città dei morti

Pubblicato il 27-02-2024

di Roberto Cristaudo

La vita a Varanasi comincia a muoversi presto, quando il sole non è ancora sopra l’orizzonte. Molti viaggiatori scelgono di guardare la città che si anima, le torri e i palazzi che si colorano nell’alba, risalendo il Gange a bordo di una barca. Vanno a Assi Ghat, il punto più a sud della città, dove contrattano il prezzo con uno dei tanti barcaioli che si contendono l’attenzione dei turisti. Solo noi occidentali pensiamo il Gange come un’entità maschile: per chi appartiene a questi luoghi, l’acqua scura che scorre sotto la chiglia è Mother Gange, la personificazione stessa della dea Ganga. E pur essendo uno dei fiumi più inquinati al mondo, per i milioni di fedeli che ogni giorno scendono le scalinate dei ghat per purificarsi, fare il bucato, bere, meditare, consultare un sadhu o partecipare a un rito funebre, l’acqua del Gange è sacra e viene raccolta in taniche e conservata in casa come benedetta.

Varanasi è la città sacra degli Induisti e la sua origine è remota come gli dei che, ancor oggi, dettano le regole della sua esistenza. Citata negli antichi Veda come «la mai abbandonata da Shiva», «la foresta della beatitudine», «la città della luce» e, soprattutto, «il grande luogo delle cremazioni», Varanasi è l’unico luogo sulla Terra in cui gli dei concedono agli uomini di liberarsi dall’eterno ciclo di reincarnazioni, ed è per questo che milioni di fedeli vengono qui a morire e a far disperdere le proprie ceneri nel Gange. Così, le pire ardono senza sosta sulla cima dei ghat funerari, enormi cataste di legna vengono trasportate e vendute, uomini in lutto si fanno rasare la testa e l’aria è satura di fuliggine e cenere, mentre intorno la vita continua e tutto si mescola al suono delle campane e dei mantra, ai clacson dei tuk-tuk, al ruminare delle vacche, al puzzo dell’immondizia e dei fiori marci, al profumo di olio, incenso e fiori freschi che arrivano ogni giorno per le nuove offerte.

La sera, quando le pire smettono di ardere, altri fuochi si accendono. È il Ganga Aarti, la cerimonia in cui i brahmini danzano e cantano, creando coreografie di luce mentre centinaia di persone, dalla riva del fiume e dalle barche, affidano alla corrente ciotole di foglie, illuminate da fiammelle che rappresentano i loro sogni. Più lontano il fiume porterà la loro lampada, più grande sarà la loro fortuna. Anch’io, come tanti altri, avevo affidato il mio lumino alla dea Ganga e sperato che andasse lontano.

Poi, all’alba del giorno dopo, mentre camminavo vicino alla riva, l’ho visto. Non avrà avuto più di dodici o tredici anni e la sua barca l’aveva costruita con casse di polistirolo e fil di ferro. I remi, recuperati chissà dove. Andava vagando lungo la sponda per ripescare quei lumini sgangherati che la corrente aveva ributtato a riva, o impigliato in qualche detrito. I nostri sogni della sera prima li accumulava con pazienza infinita e devozione, uno a uno, per poi rivenderli la sera stessa a un altro passante, a qualcuno che avrebbe sperato con altrettanta intensità che la grande madre Ganga portasse lontano la sua fortuna e i suoi desideri. E il giorno dopo, e quello dopo ancora, tutto sarebbe ricominciato uguale a se stesso a Varanasi, dove morte e vita, sogni e naufragi sono sinonimi, e passato, presente e futuro danzano insieme.


Roberto Cristaudo
NP gennaio 2024

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