Islanda: la terra respira

Pubblicato il 16-02-2024

di Roberto Cristaudo

Nessun luogo come l’Islanda è riuscito a essere al tempo stesso paesaggio e persona.
La percezione fisica che ho avuto, la prima volta che ho messo piede sull’isola, è di essere a contatto con un luogo vivo, una terra che respira.
Ci sono ritornato per altre dieci volte e questo potrebbe bastare per comprendere quanto sia affezionato a quella porzione di mondo situata appena sotto il circolo polare artico.
La prima volta fu nel 1989, l’ultima nel 2019.


La domanda che più frequentemente mi viene posta è: «Cos’è cambiato, in questi trent’anni?».
«Nulla» mi viene da rispondere ma, a pensarci bene, non è del tutto vero.
Il paesaggio è rimasto immutato, quello sì, affascinante e incredibile come sempre. A essere cambiati sono invece gli islandesi. Da quando il turismo, anche qui, è diventato “di massa”, invadendo letteralmente l’isola, gli abitanti hanno dovuto adeguarsi.
Non trovo un modo più sintetico per raccontare il boom del turismo delle parole utilizzate dall’enfant terrible della letteratura islandese, Hallgrímur Helgason che, come i suoi concittadini, osserva sbalordito orde di stranieri entusiasti di sfidare il clima ostile.
«Ogni mattina alle otto in punto accompagno i bambini a scuola in macchina, attraversando il centro di Reykjavík.
E ogni mattina li vedo, sul marciapiede davanti al loro albergo, una cinquantina di turisti in attesa dell’autobus che li porta fuori città per ammirare geyser e ghiacciai».

«Non eravamo abituati a vedere gente nelle strade di Reykjavík, e certo non alle otto del mattino. Ma adesso tutto il centro è affollato dall’alba al tramonto, per quanto “alba” non sia forse il termine più appropriato qui, visto che siamo in febbraio e la mattina resta di un nero pece almeno fino alle dieci e mezzo. Se ne stanno lì impalati, congelando nel buio, anche loro altrettanto neri nei loro vestiti invernali, e ogni volta che li supero resto stupefatto del loro entusiasmo e della loro resistenza: è gente che non si arrende».


«I turisti – continua Helgason – hanno salvato la nostra economia dopo la spaventosa crisi del 2008, quando tutte le banche sono saltate in una settimana e l’Islanda è finita praticamente in bancarotta, se non dal punto di vista finanziario, almeno da quello morale.
Abbiamo lottato per due anni per cercare di rimetterci in piedi, sopportando pesanti tagli a tutti i servizi statali e tirando la cinghia fino al 2010, quando il nostro caro Eyjafjallajökull ha deciso di peggiorare ulteriormente le cose: la sua eruzione ha chiuso tutti gli aeroporti d’Europa. Da un angolo all’altro del vecchio continente i viaggiatori erano bloccati in qualche scalo per colpa di un vulcano lassù in Islanda e della sua nube di cenere. Ma non si trattava della stessa nazione che qualche anno prima era scoppiata in una nube monetaria? A proposito, non è che quegli sfigati ci devono ancora dei soldi?

La nostra reputazione era in pezzi e la nostra economia sarebbe collassata di nuovo, lo pensavamo tutti. In un gesto di estrema disperazione il governo ha deciso di giocarsi un’altra carta e di scialacquare gli ultimi spiccioli rimasti nella più grande campagna di pubbliche relazioni della storia del Paese, chiamata Inspired by Iceland. Includeva, tra l’altro, un video musicale girato in varie parti dell’Islanda, in cui graziosissime fanciulle locali con i loro maglioni tradizionali ballavano sulle note di Jungle drum, la hit della star islandese Emilíana Torrini. La campagna fece molto discutere all’epoca, erano in tanti a ritenerla sopra le righe: stavamo palesemente svendendo noi stessi e il nostro Paese. Ma funzionò. Fin troppo».

            

Roberto Cristaudo
NP gennaio 2024

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