Per un quartiere migliore

Pubblicato il 17-12-2022

di Fabrizio Floris

Nel suo bellissimo Vita e morte delle grandi città (Einaudi, 2009), Jane Jacobs si chiede come muoiono le città, come finiscono e cosa ne determina la fine. Jacobs si pone delle domande che cercano di capire come le città funzionino nella vita reale: «Quali specie di strade urbane siano sicure e quali no; perché certi parchi siano meravigliosi, mentre altri sono moralmente – e a volte mortalmente – pericolosi; perché certi slums rimangano tali, mentre altri riescono a rinnovarsi spontaneamente […] quale sia la ragione per cui il centro delle città si sposta […]. Il primo punto di osservazione per comprendere tutto questo è la strada.
La strada è il sistema nervoso; comunica il sapore, la sensazione, i luoghi d'interesse. È il principale punto di transazione e comunicazione ».

Ma se le strade perdono vitalità, se si svuotano i luoghi di incontro e aggregazione, se terminano le possibilità di prendere parola in pubblico perché non c’è nessuno disposto ad ascoltare è la città stessa che finisce.
Per questo vale la pena chiedersi: Quand’è che abbiamo smesso di incontrarci? Quand’è che abbiamo iniziato a perdere il peso e la polvere della storia? Quand’è che la periferia è passata dalla fisica, alla geografia, all’esistere? Quand’è che l’altro è diventato un oggetto da evitare? Ma soprattutto che cosa è successo perché ciò accadesse? È stata la fine del lavoro di massa? La mancanza dei figli? La senilità precoce e feroce del luogo che ha prevalso sull’essere? Quand’è che abbiamo smesso di essere una comunità di destino?

Metaforicamente Mirafiori non è finita negli anni ’80, con le lettere di licenziamento e nemmeno con la lunghissima cassaintegrazione che ha varcato il secolo, ma il 26 maggio 2022 con la morte di don Matteo Migliore. Con lui termina simbolicamente la storia dei pionieri, di quella generazione che ha fondato e costruito il quartiere. Un gruppo eterogeneo di persone che ha lavorato perché tra i palazzi, oltre ai muri delle case, arrivassero i servizi, l’autobus, fossero piantati alberi, ma soprattutto un gruppo che è stato capace di costruire relazioni di comunità.
Persone che avevano innescato una catena vitale costituita da mani che si stringevano e lavoravano per il bene comune e lavorando hanno trasformato Mirafiori in un luogo vitale.
Un gruppo promotore di riunioni, dibattiti, azioni concrete, cammini di condivisione che è passato attraverso circoli, sindacati, fiduciari di scala, che poi si è sempre più frammentato fino a diventare unità singolare: un monachesimo non scelto, ma costituito da lontananza più che di ricerca. È tempo di alzarsi, caricarsi della forza di tornare da quel mondo altro, dal sogno e cantare la visione che trasforma la lontananza in vicinanza: la morte in vita.
 

Fabrizio Floris
NP ottobre 2022

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