L'impegno condiviso

Pubblicato il 12-11-2023

di Chiara Vitali

Bosnia Erzegovina. I problemi diventano occasioni di riconciliazione per rompere i silenzi e vincere sfide comuni Bosnia Erzegovina, 1992. La guerra nell’ex Jugoslavia è appena iniziata.
Sarajevo viene messa sotto assedio dall’esercito serbo e da quello federale. Ci sono gli spari, la ricerca casa per casa delle persone, gli edifici sono trapassati dai proiettili. In quattro anni, i morti sono più di 100mila.

I segni del conflitto, in Bosnia, sono ancora ben visibili. I buchi nei muri, i cimiteri con centinaia di tombe bianche, i musei e i memoriali.
Ma c’è un’altra conseguenza che non si vede immediatamente e diventa chiara dopo qualche giorno nel Paese: le divisioni e le fratture tra i suoi cittadini.
La Bosnia Erzegovina storicamente è abitata da tre componenti etniche principali: i bosgnacchi, i serbo-bosniaci e i croato-bosniaci. Prima della guerra lo scambio e la compenetrazione tra loro erano continui, tanto che era normale avere nella stessa famiglia genitori, zii, nonni di etnie diverse. I matrimoni misti erano all’ordine del giorno, cuore di una vivacità culturale che – ad esempio – distingueva Sarajevo da altre città. Ma in guerra le componenti etniche si trovano improvvisamente le une contro le altre: una caratteristica peculiare del conflitto nell’ex Jugoslavia che per questo viene definito “fratricida”. Così i vicini diventano nemici.

Oggi le tre etnie vivono ancora sullo stesso territorio, ma sono separate e spesso divise da un odio silenzioso. A volte ci sono dei confini fisici che delimitano le zone delle une e delle altre, dentro lo stesso Paese. «C’è riconciliazione?» si può chiedere ai cittadini. La risposta è immediata: «No, ci vorrà ancora molto tempo». In Bosnia Erzegovina la disoccupazione è al 50%, l’emigrazione è altissima, la corruzione è a tutti i livelli amministrativi. La paura è che quelle divisioni etniche siano pronte a infiammarsi in modo nuovo.

Eppure, c’è chi non si arrende e ha trovato un modo per mettere in comunicazione persone che durante la guerra si sparavano. Lo racconta Alma Midzič, studiosa e attivista, impegnata a Sarajevo per la difesa dei beni collettivi. Alma porta spesso i turisti in cima a una collina da cui si vede tutta la città e da lì traccia una geografia nascosta fatta di edifici abusivi, aree di scarico illegale di rifiuti e ospedali che vengono via via privatizzati.
Ma Midzič si occupa soprattutto di acqua. «Sul nostro territorio abbiamo moltissimi fiumi, siamo uno degli ultimi Paesi in Europa ad avere ancora fonti vergini, non contaminate e con biosistemi unici, racconta. Eppure, la nostra acqua è in pericolo». In Bosnia i fiumi sono a rischio perché vengono costruite sempre più centrali idroelettriche. Le aziende private hanno ricevuto incentivi dal governo per investire in queste attività, in nome di una transizione verso le energie rinnovabili. Avere energia verde, sottolinea Alma, non è ovviamente di per sé una cosa negativa.
Il problema è che lo sfruttamento dell’acqua è diventato un vero e proprio business con meccanismi non trasparenti, spesso corrotti. «I fiumi vengono privatizzati – spiega ancora Alma – Noi avremmo una legge per proteggerli, ma chi costruisce le centrali spesso non rispetta le regole. Te ne accorgi quando vai sul campo e vedi piccoli fiumi che sono secchi o completamente compromessi. Tutto per la fame di profitto».

Ma ecco che proprio il problema dell’acqua diventa un’occasione per camminare verso una possibile riconciliazione. Alma fa parte insieme a centinaia di altre persone del Movimento per la difesa dei fiumi. L’acqua è un bene per tutti – bosgnacchi, croato- bosniaci e serbo-bosniaci – e alcuni iniziano ad essere disponibili a impegnarsi.
«Un problema come quello dei fiumi non può essere risolto all’interno di un solo gruppo etnico – spiega infatti Midzič – quando le persone capiscono quanto è importante la difesa dell’acqua, accettano di riunirsi attorno a questa sfida e di sedersi attorno a un tavolo. Parliamo dei fiumi, ma intanto si rompono silenzi pesanti, che magari durano da anni, e si affrontano argomenti che altrove sarebbero vietati. C’è la novità di agire insieme per qualcosa di nuovo, che ha un impatto positivo per la vita di tutti».

Nel villaggio di Kruščica, le donne si sono messe insieme e hanno protestato pacificamente contro la costruzione di una centrale che avrebbe danneggiato il fiume cittadino. Si sono sedute sugli argini e hanno impedito il passaggio dei mezzi.
Vicino a Bihac, invece, gli abitanti sono riusciti a fare dichiarare protetta un’area con numerose cascate naturali per evitare che venissero costruite anche lì micro-centrali.
A Sarajevo il movimento sta cercando di portare sempre più consapevolezza.
C’è determinazione nella voce di Alma e anche stanchezza. Le cose a volte sembrano non cambiare mai. Poi però ci sono piccoli segni e si intravede una strada: i problemi del Paese possono diventare battaglie comuni, occasioni di unione, riconciliazione e azione. Una speranza può germogliare da lì.
 

Chiara Vitali
Focus
NP ottobre 2023

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