Il frutto dello Spirito

Pubblicato il 24-05-2013

di Giuseppe Pollano

Come lo Spirito influisce su di me? In questa prima riflessione i valori che Paolo ci presenta nella lettera ai Galati quali frutto dello Spirito.

 

Paolo invita a camminare secondo lo Spirito e a non assecondare i desideri della carne. In noi convivono e combattono l’economia della carne (oggetto di una successiva riflessione) e quella dello Spirito (oggetto di questa riflessione), che Dio ha posto in noi aspettandosi che l’economia dello Spirito emerga, vinca sempre di più, in una parola ci faccia santi.

“Camminate secondo lo Spirito” (Gal 5,16), non significa solo evidentemente far dei passi, ma ha un significato etico, cioè andate avanti nel bene, il che comporta che la nostra personalità non è più quella di prima. Non dobbiamo pensare che la storia della personalità soprannaturale, quella della Grazia, descriva una parabola ascendente e poi discendente come nel ciclo bio-psicologico. Infatti lo Spirito continua un’ascesa che terminerà soltanto con l’entrata nel Regno.
L’aspetto attivo del bilancio, in questo tempo di prova che è la nostra esistenza in questo mondo, è quello che Paolo, con espressione sintetica, indica come “il frutto dello Spirito” (al singolare, il frutto è qualcosa che lo Spirito semina in noi e che Dio vuol cogliere, è una sintesi di vita); l’aspetto passivo è quello che egli chiama “le opere della carne” (al plurale, perché non vanno d’accordo tra loro).
Paolo in Gal 5,22 esprime il frutto dello Spirito con nove sostantivi.
LA PRIMA TERNA

Amore, gioia, pace ci radicano nel vivere di Dio. Il significato sta nascosto da sempre in Dio: è Dio l’amore; è Dio la gioia; è Dio la pace. Paolo non ha detto: “Dio ha amore”, ma “Dio è amore”, sicché tutto ciò che nella nostra vita possiamo chiamare così, è solo un riflesso di quella origine.

Amore. Agape non significa ciò che appartiene alla sfera sentimentale, ma è quell’amore che diventa immediatamente servizio degli altri, a scanso di ogni narcisismo, di ogni ripiegamento su di sé, di quelle lunghe attese di amore che ci tormentano, ci macerano, ci chiudono in noi stessi.
Dio può cogliere il primo frutto in me se ho lasciato maturare meglio di prima questo amore che ha saputo servire. Qui ritroviamo tutto il ritratto di Gesù, colui che è venuto in mezzo a noi come uno che serve. Dobbiamo essere attenti a mantenere una grande concretezza, cominciando con il servire proprio nelle piccole cose. È bello poter dire, in una società fortemente segnata dall’egocentrismo, “Signore, il mio tempo ho cercato di viverlo per gli altri, di essere per gli altri”.

Gioia. Paolo intende gioia nel suo significato escatologico, la gioia che ci dà Dio quando ci incontriamo con lui e stiamo bene con lui.
Nella vita non possiamo pronunciare la parola gioia senza collegarla al termine dolore, perché non esiste gioia che non sia vulnerabile dal suo opposto, il dolore. Ebbene, la gioia di Dio passa in mezzo all’avventura della vita, sostiene le poche gioie umane, ma rimane misteriosamente vera anche quando queste gioie non le abbiamo. Si può avere questa gaudiosa unione con Dio anche quando si soffre. È un vero miracolo perché, dal punto di vista psicologico, o hai gioia o hai dolore.
Sempre dovremmo poter dire: nello Spirito ho acquistato la sicurezza, questo gaudio misterioso, che Dio è buono, e m’accorgo che questo mi dà forza.

Pace. Gesù ci ha detto: non vi do la pace che vi dà il mondo, vi do la mia pace. Paolo parla della pace di Gesù. Ammette che il mondo può darci una sua pace, però è più grande la pace che nasce dal sentirsi sicuri in Dio, la pace che non si lascia né appassire né annullare dai turbamenti della vita, fenomeno oggi molto diffuso che ci porta alla sfiducia, che ci fa scivolare verso la depressione. Ebbene, la pace che ci dà Gesù permette di aggrapparsi a Dio e comunque di tornare a lui offrendogli la fatica stessa della vita, senza che essa ci abbia schiacciato. Abbiamo saputo accogliere il samaritano che ci ha fatto sentire guariti? Abbiamo fatto l’esperienza del Dio pacificante? Siamo stati pace per qualcun altro?
Se abbiamo tolto pace a qualcuno, non lasciamo passare il tempo, ridiamogliela, anche se fossimo interamente sulla sponda della persona che ha subito un torto.

GLI ALTRI SEI VALORI

La personalità formata dai primi tre valori continua a crescere con gli altri sei legati ai primi tre.

Pazienza. Presume che ci sia qualcuno che ce la faccia scappare, e, viceversa, io che la faccio scappare ad altri. Dobbiamo riconoscere che perdiamo la pazienza perché siamo impazienti, non tanto perché siamo stati provocati. È comunque indubbio che dobbiamo esercitare parecchia pazienza nella vita; e la pazienza, ad un certo punto, cede perché non siamo capaci di pazienza illimitata: è il nostro naturale limite umano. Se la vita ci ha messi in condizione di pazientare di più, con fede ringraziamo Dio; se lo Spirito ci ha stimati degni di questo dono facendoci guardare al crocifisso, ringraziamolo. La pazienza presume l’ostacolo, la provocazione, anche tutti i giorni, se siamo, ad esempio, alla presenza di persone che hanno molti problemi. Può anche richiedere carità eroica, e diventa una macro-pazienza. Però controlliamoci anche sulla piccola pazienza, di quando per esempio guidiamo l’automobile!

Benignità. I padri della Chiesa la consideravano l’irradiazione di quanto si è buoni. È un atteggiamento di benevolenza che aiuta l’altro ad aprire il cuore. Come è bello quando di noi possono dire: è una persona affabile, cordiale, che ti incoraggia, che ti apre il cuore. È molto importante nella nostra civiltà dell’immagine: vediamo tanti volti sorridenti sugli schermi, con sorrisi che non finiscono mai, ma quanta apparenza c’è dietro!

Bontà. È fattiva, corre a fare il bene, è partecipativa, è pratica. Quando incontro qualcuno devo essere innanzi tutto affabile, poi vedere il bene che c’è da fare, quindi intervenire. In questo mondo dove c’è anche tanto male attivo, tanta perversità organizzata, la bontà è sempre capace di creare qualche cosa. L’ostacolo alla bontà non è tanto la cattiveria, ma è l’inerzia; è il terribile dire ‘arrangiati’, tanto poi ci penserà qualcun altro. La bontà interviene, non guarda se c’è un altro prima o un altro dopo.

Fedeltà. È importante la fedeltà al bene, anche quando si è traditi. Come Gesù. Anzi, è difficile che ci possa essere una reale fedeltà fino a quando non si passa attraverso la prova della delusione o del tradimento. Non è un caso che Gesù abbia scelto proprio questa strada per andare a morire: tradito da un amico che lui aveva scelto. Il Signore ci chiede prove di fedeltà, secondo la nostra misura; non meravigliamoci di questo. Se diciamo sì, sia sì; se diciamo no, sia no: cerchiamo di essere sempre affidabili. Nell’enciclica Fides et ratio il Papa fa un’osservazione molto fine: se non c’è nessuna persona di cui ti puoi fidare, chi ti dice la verità? Richiamando poi un detto molto bello di sant’Agostino, dice: sono capaci tutti di ingannare, ma nessuno accetta di essere ingannato.
Se ci accorgiamo che stiamo diventando affidabili, pur con i limiti che tutti abbiamo, ringraziamo il Signore: in questo mondo di slealtà organizzate, paurose, una persona affidabile è proprio una luce sulla strada degli uomini.

Mitezza. La mitezza è non reagire, non per paura o per calcolo o per non impegnarsi, ma perché il mio cuore è più grande, ed io rimango mite. In concreto, è rendere bene per male; rimanendo miti, si arriva al cuore dell’altro. Come è confortevole il sorriso mite di una persona che ci sembra di poter schiacciare come una zanzara, ed invece è più forte di noi, proprio perché mite.

Autocontrollo. L’autocontrollo, il dominio di sé, è il saper dire un no piccolissimo quando avrei voglia di dire un sì piccolissimo, senza trovare la scusa che, dopo tutto, è un sì piccolissimo. Questa ascetica è stata capita da tutti i saggi della terra, ed è importante per non rischiare di non saper più dire dei no impegnativi.

UNA CRESCITA SENZA SOSTA

La molteplice azione dello Spirito in noi aiuta la nostra personalità a camminare nella giusta direzione, lentamente ma in modo sicuro. Non è presunzione poter dire che ci pare che lo Spirito ci faccia camminare in questa direzione. Non è neppure ambizione troppo alta, perché è questo essere cristiani, né più né meno. Il frutto dello Spirito è un dono alto, che dobbiamo accogliere con grande fiducia.

Non scoraggiamoci mai, nonostante tutte le forze ostili che sentiamo in noi, non diamo mai più importanza al male che al bene che è in noi: faremmo un errore gravissimo, perché il male viene dalla creatura, che è finita, per tanto che sia grande, ma il bene viene da Dio, che è un infinito bene. Non c’è proporzione! Se il male lo sentiamo in noi, dichiariamo umilmente la nostra debolezza, perché si compia in noi la potenza dello Spirito. Non diamoci mai per vinti né dal male che è fuori di noi, né da quello che è dentro di noi. Scoraggiarci è un errore gravissimo, su cui conta molto il diavolo: per lui gli scoraggiati sono come la crema sulla torta!


Giuseppe Pollano
da un incontro presso il Sermig


Vedi il dossier:
Mons. Giuseppe Pollano - riflessioni inedite per la Fraternità del Sermig

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