Destino comune

Pubblicato il 04-07-2023

di Paolo Lambruschi

Dopo 12 anni dalla rivoluzione dei gelsomini, la Tunisia è tornata sotto i riflettori. Ha ampiamente sostituito la Libia come primo luogo di partenza dei migranti verso l'Italia e, purtroppo, sui fragili barchini d'acciaio fatti in fretta e furia i migranti subsahariani si mettono in viaggio per navigare verso la vicina Italia, correndo rischi mortali. Nel frattempo, la rivoluzione che ha mandato a casa l'uomo forte Ben Ali è fallita a causa dell'incapacità dei politici e della corruzione.

Il Paese si è così affidato a Kais Sayed, un docente universitario campione della democrazia diretta e dell'antipolitica. Saied ha avviato una lotta serrata alla corruzione restringendo, però, tutti gli spazi possibili di democrazia e trasformando il Paese in una autocrazia. In più la grande crisi economica – dovuta prima all'impatto della pandemia da Covid che ha ucciso il turismo di massa, poi ai cambiamenti climatici che hanno alzato i prezzi e infine al colpo di grazia dato dalla guerra in Ucraina che ha portato l'inflazione sopra il 10 per cento – hanno messo la Tunisia in ginocchio. Una sfida per il nostro Paese che è diventato il primo partner commerciale della Tunisia e che ha con noi legami storici e culturali anche umani molto profondi. Senza contare i 200mila tunisini che vivono e lavorano in Italia e le migliaia di pensionati che si sono trasferiti ad Hammamet. Ma ovviamente nell’Italia priva del necessario doppio sguardo sull’Africa, oltre a quello migratorio in chiave securitaria, si tende a parlare solo di Tunisi per i flussi potenziali o presunti.

Se crolla la Tunisia e prosegue questa tendenza, rischiamo di vedere arrivare in estate fino a 900mila profughi, è l'allarme della premier Meloni all'Europa. Una cifra poco probabile, dato che al momento la Tunisia conta forse 20-30mila subsahariani e – anche se i confini con Libia e Algeria sono porosi – un milione di persone non si spostano così velocemente. E che i 12 milioni di tunisini in soli tre mesi lascino in massa il Paese pare abbastanza strano. Certo, il Paese rischia di implodere, ma i paragoni con la Libia sembrano ancora un azzardo, perché non c'è una guerra civile in corso e, nonostante la deriva autoritaria, le istituzioni tunisine reggono. La prima causa di fuga dei migranti subsahariani della Tunisia e il clima xenofobo creato dal discorso razzista del presidente Sayed lo scorso 20 febbraio quando dichiarò che i migranti provenienti dall'Africa – come se la Tunisia fosse Europa – volevano sostituire etnicamente la popolazione. Un discorso indegno, condannato dalla comunità internazionale, ma che ha sortito effetti pesanti come le aggressioni a chi ha la pelle scura. Probabilmente Sayed, imitando Erdoğan e i governi libici ha fatto pressione sull'Europa per ottenere aiuti economici. Il nodo vero è infatti quello economico e finanziario. Per non fallire, lo Stato rivierasco ha bisogno di un prestito di 1,9 miliardi di dollari da parte del Fondo Monetario Internazionale, il quale in cambio chiede una robusta sforbiciata all'industria di Stato su cui si regge l'economia tunisina e il taglio dei sussidi al pane e alla benzina che potrebbero però innescare una seconda rivoluzione. Occorre quindi che l'Europa e l'Italia assumano un ruolo di mediazione decisivo con il Fondo Monetario Internazionale per evitare che la Tunisia fallisca, pena l'instabilità dell'intero Nord Africa. Ma non è solo questione di geopolitica. Questo Paese che vede nell'Italia la guida deve essere salvato e integrato nel Mediterraneo. Non solo per gli interessi economici ed energetici di Roma e dell'ENI, ma perché questo è il primo mattone di una nuova politica che ha come obiettivo la costruzione del comune destino tra Europa e Africa.


Paolo Lambruschi
NP aprile 2023

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