Saremo migliori?

Pubblicato il 20-06-2020

di Guido Morganti

L’emergenza Covid può essere un insegnamento, come tutti i tempi difficili. Per il Sermig fu così anche negli anni ’70…

 

Siamo agli inizi degli anni ’70. Una signora mette in risalto una caratteristica del Sermig. Lo fa presente Ernesto Olivero a Giovanni Paolo II: «Già da alcuni anni l’Italia era scossa dalla contestazione giovanile e dal terrorismo: ovunque si respirava tensione, paura, incertezza del futuro; le piazze si riempivano di gente; la protesta dei giovani spesso degenerava in aggressione; gli estremismi erano marcati.

Noi, che fino a quel momento ci eravamo adoperati per i lontani, sentivamo per la prima volta di essere una presenza ferma contro la violenza, ma serena verso la gente e di esserlo non nel chiuso delle nostre chiese, ma nelle piazze, nei luoghi di incontro, di protesta e di rivendicazione.

 

Avevamo scelto il silenzio. Il semplice ritrovarsi nella piazza la trasformava in una chiesa a cielo aperto e portava così la preghiera tra la gente. Era stato un segnale che tante persone avevano recepito. Dopo una di queste grandi veglie nella piazza più grande di Torino, una donna era venuta a cercarmi e ci aveva ringraziato: “Grazie perché voi ci date speranza”» (Carolpapa pag. 45). La conferma di questo “carisma” veniva proprio dal papa in un incontro il 24 gennaio 1979: ci aveva dato il mandato di tirar fuori la speranza assopita nel cuore dell’uomo.

Speranza per affrontare disperazione, angoscia, paura che immancabilmente caratterizzano i tempi di crisi, come quello che stiamo vivendo qui noi oggi. Sono sentimenti che in altre parti del mondo conoscono bene. Pensiamo anche solo a cosa possa vivere una mamma che non ha da mangiare per sé e per i figli. Eliminare la fame del mondo è stato il primo sogno del Sermig, che non è rimasto tra le nuvole, ma ha trovato subito concretezza negli aiuti, nei progetti, nel creare una mentalità capace di guardare fuori dal proprio ambito.

 

L’approccio alla mondialità ha permesso di venire a contatto con le ingiustizie, lo sperpero delle risorse, lo sfruttamento dell’ambiente, lo scandalo delle guerre. Da qui è nato l’impegno, per esempio il tema della pace nel cuore della Guerra fredda, un periodo storico che per decenni è stato segnato da una pandemia da virus della paura, di instabilità. 

Le armi erano, come sono tutt’oggi, la calamita per far soldi, per dare senso di sicurezza, per mantenere equilibri strategici. Ricorda Ernesto Olivero: «Durante la guerra del Kippur tra arabi e israeliani […] comparvero su tutti i giornali d'Italia articoli catastrofici sulla sorte dell'umanità. L'unica voce di speranza fu quella di un certo Giorgio La Pira, che io non conoscevo. Parlava di una nuova speranza, si rifaceva al profeta Isaia, che profetizzava un tempo in cui le armi si sarebbero tramutate in strumenti di lavoro e l'uomo non avrebbe più imparato il mestiere della guerra». Is 2,4 diventa la linea guida.

 

Nella mostra “Denunciamo la violenza perché vogliamo la pace” nel 1975 un cartellone evidenziava che le armi ammazzano e lasciano solchi di discordia e di sospetti fra gli uomini, rubano migliaia di miliardi che risolverebbero le disparità economiche. Su questa linea si è poi arrivati all’attuale slogan “le armi uccidono cinque volte” (cfr NP2019/5 pag.21). È dell’anno prima la mostra “La guerra dipende da noi” che si concludeva con questa frase: «In qualsiasi tensione al bene, deve esserci chi comincia per primo. Perché non cominciare noi?», per consolidare l’idea che non basta protestare, bisogna prendersi delle responsabilità, assumere uno stile di vita coerente con le idee che si intendono trasmettere. Il Sermig aveva scelto di non denunciare le ingiustizie sociali e mondiali coinvolgendo la gente con manifestazioni chiassose e violente, ma di incontrare la gente con pacatezza, con il dialogo, con la concretezza di proposte per venire incontro a chi vive nella miseria, con la testimonianza di una vita che ha messo Dio e i poveri alla base delle proprie scelte. Piazze, teatri, palazzetti vengono utilizzati per incontrare la gente con mostre, con la partecipazione di “maestri”, con simboli come la “tenda della pace”. Significativo un incontro al palazzetto dello sport di Torino il 13 maggio 1973: “Pomeriggio di speranza, di preghiera, di ascolto”. Come nota storica era la prima volta che Ernesto Olivero parlava in pubblico iniziando il suo intervento così: «Realtà innegabile è che la società contemporanea attraversa una crisi di valori. Il benessere, per molti, traguardo massimo da raggiungere passando su tutto e su tutti. L’individuo pone se stesso al centro di ogni interesse. Minoranze potenti si impongono alla moltitudine degli uomini. In questo contesto si innesta il messaggio di Cristo, che è messaggio di liberazione, perché è messaggio di Amore. L’amore è la legge fondamentale della vita. L’amore non conosce né timore, né compromessi, né pregiudizi, né barriere. Cristo risorto segna la vittoria definitiva della vita sulla morte…». Erano anche gli anni del terrorismo, nero e rosso. Senza dimenticare la grave crisi petrolifera. Un’altra pandemia da virus paura. Come Sermig si è attraversato questo periodo con desiderio di convertire, di condannare le azioni ma aiutare chi le compiva a capire i propri errori. Negli anni questa impostazione che escludeva la chiusura della mente ha permesso al Sermig di coinvolgere detenuti in una cooperativa di lavoro.

 

Questo tempo di pandemia finirà, e la domanda è se saremo migliori. Chiaramente dipende da come si è vissuto questo tempo. Come gli ultimi due numeri di NP hanno raccontato, il Sermig è ripartito subito dal primo giorno usando quella chiave che apre cuore mente occhi orecchie al mondo e introduce alla speranza. Che diventa concretezza di scelte e di vita. La speranza è una porta che si apre e non si chiude più. La porta del Sermig è sempre aperta.

 

Vedi il focus Riflessioni in tempo di Covid 19

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