Un Nobel decaduto

Pubblicato il 08-03-2022

di Paolo Lambruschi

È sempre una sconfitta vedere un premio Nobel per la pace dichiarare guerra. È una contraddizione in termini che irride le speranze di chi crede sinceramente nella pace e manca di rispetto alle vittime della guerra, un tradimento di chi dovrebbe aiutare l'umanità a bandire la violenza come strumento di risoluzione dei conflitti. A fine novembre invece il premio Nobel per la pace 2019 Abiy Ahmed, premier etiope, ha fatto di più. Dopo un anno di guerra civile combattuta contro la regione etiopica settentrionale del Tigrai con ogni arma – compresi i massacri di civili, gli stupri di massa, il blocco degli aiuti umanitari, in spregio al diritto che regola la guerra – ha dichiarato sui social che sarebbe andato a combattere al fronte.
Ci mancava anche il Nobel al fronte alla collezione di errori fatta negli anni dal Comitato di Oslo che sceglie ogni anno il vincitore e che ha inferto colpi micidiali alla credibilità del riconoscimento. Nel caso del Nobel africano, il primo del Corno d'Africa, parliamo sicuramente del più discusso e discutibile della storia del premio. Ai permalosi (pochi ormai) fan del premier che aveva illuso il mondo di essere un paladino dei diritti civili, piace ricordare a chi lo contesta che il premio gli è stato assegnato dall'occidente, che lui non ha chiesto niente. Ma è opportuno ricordare a loro e a chi non lo sa che con il premio il vincitore non guadagna solo fama mondiale, ma intasca un ricco assegno di 900mila dollari e una medaglia d'oro massiccio che vale altrettanto. Non ci sono vincoli di spesa della somma, ma un certo fair play richiederebbe che si avviasse una fondazione o un centro studi sulla pace almeno per salvare le apparenze. Non che si dichiarasse una guerra nemmeno un anno dopo aver ricevuto premio e assegno e ci si recasse al fronte due anni dopo. Resta sempre la possibilità di restituire premio e soldi se si cambia idea.

La vera sconfitta nella vicenda etiope, aldilà di chi vincerà la guerra civile, è dell‘intera Etiopia e della causa della pace in Africa. Nonostante il Corno sia al centro di molti interessi per la sua posizione strategica, nemmeno un Nobel che guida il Paese più importante dell'area riesce a determinare un percorso – pur difficile – di pacificazione etnica combattendo i nazionalismi e i localismi. Invece li ha alimentati lui stesso con discorsi di odio sui social (Facebook lo ha sospeso) e ha espulso tutte le voci occidentali critiche, dai diplomatici ai giornalisti di testate globali ai funzionari delle agenzie umanitarie Onu e Ong come Medici Senza Frontiere (altro Nobel per la pace. Meritato, però). Tutti i critici sono definiti al soldo del nemico, tutti accusati di fare propaganda ostile all'unità nazionale. La spirale è tremendamente simile a quella balcanica, quando la ex Jugoslavia esplose in pochi anni di guerra cruenta. E tutti sperano che, quando verrà rimosso il black-out che avvolge il conflitto sempre per mano del premier da oltre un anno, non vi siano similitudini con il Ruanda del genocidio del 1994.

Il Nobel per la pace al fronte non è uno scherzo, è la vittoria della morte e dei mercanti di armi che in questa guerra hanno ucciso decine di migliaia di persone. L'Etiopia due anni fa sembrava aver superato tante difficoltà e sembrava lanciata sull'autostrada dello sviluppo insieme a tutto il Corno grazie al Nobel per la pace. Invece, scegliendo la strada della guerra è tornata indietro di almeno 30 anni ed è condannata alla dipendenza dagli aiuti dell'occidente, della Cina e del mondo arabo per un tempo molto lungo. Sempre che riesca a conservare l'unità. Nell'avamposto della cristianità in Africa, portatovi 1.800 anni fa, il Vangelo pare parlare nel deserto e Natale avrà il volto di un bambino che nasce in mezzo alla fame e alla disperazione. Ma viene comunque a portare una speranza di pace laddove a noi pare impossibile.


Paolo Lambruschi
NP dicembre 2021

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