La guerra del Nobel della Pace

Pubblicato il 05-02-2021

di Paolo Lambruschi

Quello che nessuno voleva alla fine è accaduto.
Le tensioni in Etiopia tra il governo regionale del Tigray e il governo federale di Addis Abeba sono cresciute fino a portare il premio Nobel per la pace 2019 Abiy Ahmed a dichiarare guerra a un pezzo della propria nazione.
Si pensava che la ragione potesse ancora prevalere. Invece dopo mesi di tensioni si è cercata la semplificazione delle armi che è una sconfitta per tutti.

Una guerra assurda che lacera una nazione con un terzo della popolazione ai limiti della sussistenza e che pure prima della pandemia da Covid-19 era lanciata – pur tra molte contraddizioni – verso uno sviluppo che avrebbe potuto pacificare le spinte nazionalistiche delle diverse etnie. Tensioni e spinte secessioniste acuitesi da 2 anni con l’avvento al potere di Abyi, il più giovane leader africano che, presentandosi come riformatore aveva fatto intravvedere grandi speranze di cambiamento in tutto il continente. Ma non si può liquidare questa guerra solo come un errore del premio Nobel per la pace.
Il Paese, sempre dominato dagli Amhara, negli ultimi 27 anni aveva intrapreso la strada della modernizzazione sotto la guida del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF, in inglese), che nel 1991 aveva liberato l’Etiopia dal comunismo del Derg insieme agli eritrei. Il Tplf ha creato un partito di potere interetnico dove aveva la maggioranza nonostante i tigrini siano solo il 6% della popolazione. Pur con un governo repressivo e corrotto ha avviato l’Etiopia verso la modernizzazione. Ma ha varato una Costituzione federale che ricorda pericolosamente quella della ex Jugoslavia e offre ai 9 Stati che compongono l’Etiopia federale il potere di dotarsi di milizie e di fare la secessione.

Nel 2018 l’avvento al potere di Abiy allontana dal potere il TPLF, che nel frattempo ha spostato risorse e armi nel Tigrai. Comincia una guerra di potere senza esclusione di colpi tra il primo leader di etnia oromo della storia etiope che vuole un governo unitario forte per rilanciare il Paese e gli uomini del Tplf che escono dal governo. In tutto il Paese intanto proseguono rivolte e scontri etnici repressi nel sangue.
Abiy si lega molto, forse troppo, al dittatore eritreo Isaias Afewerki, con cui ha posto fine a un conflitto ventennale guadagnandosi il Nobel. Entrambi hanno un nemico comune, il Tplf. Lo scorso settembre in Tigrai si tengono le elezioni che avrebbero dovuto svolgersi in tutto il Paese ma che Abiy ha rimandato per il Covid. Stravince il Tplf e il governo centrale di Addis Abeba, guidato da Abiy Ahmed, le ritiene illegali.
Il 4 novembre, in risposta all’attacco subito da una base dell’esercito, secondo la versione del governo centrale Addis Abeba dichiara guerra al governo regionale tigrino, nel nord del Paese, accusandolo di terrorismo. Il conflitto ha assunto una dimensione internazionale per la crisi dei rifugiati che sta generando e il lancio di missili sulla capitale dell’Eritrea, Asmara.

Una guerra di propaganda e con poche notizie certe poiché l’Etiopia ha oscurato la rete e tagliato le linee telefoniche rendendo impossibile a tante persone contattare parenti e amici. Si sa che sono state commesse atrocità dalle due parti, stragi di civili. Migliaia di etiopi, molti dei quali ragazzi e ragazze, hanno varcato il confine del Sudan per sfuggire alle violenze.
Le Nazioni unite hanno preparato un piano di emergenza per oltre 200.000 persone. Una tragedia che ci riguarda non solo perché le strade del Tigrai sono state costruite da soldati e coloni italiani quasi 90 anni fa e i nomi di città come Axum, Macallè compaiono nella toponomastica, ma perché il conflitto minaccia di destabilizzare l’Etiopia e il Corno d’Africa e di far ripartire sulle rotte dei trafficanti migliaia di profughi.

Paolo Lambruschi
NP dicembre 2021

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