Stop alla guerra nel Nord Uganda

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


...Pierangelo Monti


Negli ultimi mesi si è cominciato a parlare di tregue e di avvii di colloqui tra le parti in conflitto nel Nord Uganda, ma questi segnali di pace potrebbero un’altra volta svanire. La buona notizia verrà quando la comunità internazionale, l’Onu, l’Unione Europea e l’Unione Africana si decideranno ad intervenire veramente, con iniziative e con forze di pace. Per ora arrivano ancora notizie di incursioni degli Olum (i ribelli del Lord Resistance Army) nei villaggi e di scontri armati con l’esercito regolare, che a sua volta non lascia tranquilla la gente, che si ritrova tra l’incudine e il martello.

La vita nel Nord Uganda è sconvolta: l’80% della popolazione, abbandonate le proprie abitazioni e abitudini, vive in condizioni disumane nei campi profughi, con il poco cibo che viene donato, senza servizi igienici, con epidemie di colera e AIDS.
Migliaia sono anche i “pendolari della notte”, che al tramonto, abbandonano le proprie capanne e con una stuoia e una coperta vanno a pernottare in città, sotto le tettoie degli ospedali e delle missioni; specialmente i minori, perché rischiano di essere rapiti dai ribelli che li schiavizzano: i maschi come baby soldati e le femmine come schiave sessuali. Le cifre parlano di 20.000 bambini rapiti tra le popolazioni del Nord Uganda (Acholi, Lango, Teso), molti dei quali ancora tra le file dei ribelli.

Sulle 95.000 cartoline distribuite con la Campagna “Pace in Uganda”, è riprodotto il disegno fatto da un tredicenne, che vive in un centro di recupero, dopo essersi liberato dalle mani dei ribelli. Su un foglio di quaderno ha reso la sua testimonianza: uomini armati di fucile e machete che uccidono, bruciano le capanne, legano i sequestrati e li obbligano a portare pesanti carichi.

I racconti dei ragazzi ritornati dalla terribile esperienza del rapimento e della guerriglia sono raccapriccianti, essi stessi sono stati costretti a compiere crudeltà indicibili, persino contro i loro stessi compagni. Alcune Ong per questi sopravvissuti hanno attivato centri di riabilitazione, per curarli dai traumi psichici e fisici riportati.

La gente, che nonostante tutto riesce ancora a sorridere e sperare, si chiede i perché di una guerra che dura da 18 anni e che ha causato 100 mila morti. In particolare si chiede perché l’esercito ugandese, forte di 40000 soldati, ben armato (il più forte del centro Africa), non riesca a sconfiggere le bande di ribelli, perlopiù minorenni arruolati forzatamente, che in passato hanno raggiunto le 4000 unità e che oggi, secondo alcune fonti, sarebbero solo 200.

Ivana Ciapponi nel libro “I bambini primo bersaglio. Il dramma del Nord Uganda” (Ed. EMI) ha scritto: “Spesso accade che invece di difendere la popolazione dagli abusi commessi dai guerriglieri, siano i militari governativi stessi a commettere crimini, ammazzando o derubando le persone ai posti di blocco o saccheggiando le capanne”.
Il Presidente Museveni per combattere la guerriglia chiede e ottiene dall’occidente armi e addestramento; ma poi anziché impiegare il suo esercito per risolvere il conflitto interno (ammesso che si possa risolvere con la forza delle armi), lo impegna nei conflitti negli Stati confinanti e lo offre persino per la guerra in Iraq. Ma allora si può ragionevolmente pensare che i ribelli, benché nemici del governo centrale, siano funzionali al potere, come è funzionale la guerra. Infatti la guerra ai ribelli (o terroristi) giustifica la richiesta continua di armi e la sospensione dei diritti civili nel Paese; indebolisce e riduce le popolazioni del Nord, da sempre avverse a Museveni.

Provvidenzialmente in Sudan si è avviato un processo di pace, giunto il 9 gennaio alla firma di un accordo tra il governo islamista e i separatisti del Sud; accordo che, come ha dichiarato il Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan: “servirà anche come base e stimolo alla soluzione di altri conflitti”. Si consideri che finora le autorità sudanesi hanno concesso ai ribelli di Kony le armi e le basi operative sul proprio territorio in funzione anti-ugandese, mentre il governo di Kampala continua ad essere un fedele alleato di John Garang, leader storico dello Spla (Esercito popolare di liberazione del Sudan), formazione antigovernativa sudsudanese.

I dossier delle organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch e Amnesty International muovono pesanti accuse al Governo e al sistema giudiziario ugandese; ma di esse e della guerra nel Nord non si parla in occidente, così il Presidente Museveni continua a godere della fiducia tra i grandi della terra. Ora, per essere rieletto nel 2006, Museveni ha in progetto di emendare la Costituzione da lui voluta, che non consente un terzo mandato presidenziale (anche a questo serve la guerra).

In realtà il Presidente teme l’intervento di forze internazionali e le inchieste della Corte penale Internazionale, che innanzitutto dovrebbe processare i capi del LRA. Come per il Sudan e il Darfur, l’ONU, l’Unione Africana e l’Unione Europea (primo partner commerciale dell’Uganda) potrebbero influire decisamente sul cammino di pace.

Proprio per chiedere l’intervento della comunità internazionale e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, è stata attivata in Italia la Campagna “Pace in Uganda”, su iniziativa di 23 organizzazioni, tra le quali il Sermig e Nuovo Progetto.

L’appello che gli italiani con le cartoline sono invitati a spedire ai responsabili delle organizzazioni internazionali, è stato già più volte ripetuto dall’Arlpi (Acholi religious leaders’ peace initiative), un organismo ecumenico che riunisce vescovi cattolici e anglicani e capi islamici del distretto Acholi, presieduto dal coraggioso arcivescovo di Gulu, John Batist Odama, minacciato dai ribelli del LRA e ammonito dal Governo, per le iniziative di pace e per le denunce di violenze mosse alle parti in conflitto.

 

Grazie anche all’Arlpi si è aperto il muro di silenzio che avvolgeva questo conflitto e oggi c’è qualche speranza di pace, come ha constatato Mons. Odama: “Questa guerra, che fino a pochi anni fa era praticamente sconosciuta, oggi incomincia ad apparire sulla scena internazionale e si spera che questa maggiore conoscenza possa portare a degli sbocchi positivi. Il movimento interreligioso per la pace che ha dato voce ai senza voce, la formazione di gruppi per la pace nelle scuole, i movimenti giovanili, le donne impegnate per la pace, sono segni di grande speranza per il futuro”.

Anche noi e le nostre organizzazioni, con la Campagna “Pace in Uganda”, possiamo ripetere a tutti i livelli il grido di pace della povera gente del Nord Uganda:
“STOP THE WAR! STOP USING CHILD SOLDIERS!”.


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