Stelle no-liberal

Pubblicato il 31-08-2009

di Redazione Sermig


Tra riformismo e populismo, nuove strategie di relazioni estere, nuove politiche economiche e sociali promettono di movimentare il panorama sudamericano.

di Alberto Barlocci



Evo Morales
 
Apriti cielo! La Bolivia ha nazionalizzato i giacimenti di petrolio e di gas naturale. La notizia ha suscitato preoccupazione e le accuse di populismo non si sono fatte attendere. In realtà, tale decisione sorprende solo per chi osserva distrattamente la realtà sudamericana, errore che l’Europa commette troppo spesso. Evo Morales, primo presidente indigeno del sudamerica, aveva in realtà annunciato durante la campagna elettorale la nazionalizzazione delle risorse naturali e la riforma agraria, che ridistribuirà tra 20 e 30 milioni di ettari di terra.

I boliviani dunque potranno tornare in possesso di ricchezze finora appannaggio di pochissimi e di gruppi esteri. Ma niente paura, le imprese petrolifere hanno subito accettato la proposta di modificare la distribuzione degli introiti; ed anche se ne riceveranno il 18% invece del 50%, sarà lo stesso un buon affare.
La decisione di Evo Morales non è frutto del populismo ma espressione della cultura dei popoli originari, il 60% dei boliviani che il potere ha sempre escluso, per i quali il legame tra il popolo e la madre-terra (pacha mama) è inscindibile, e le ricchezze naturali sono un patrimonio comunitario.

La realtà attuale della Bolivia è poi parte di un contesto più ampio. Un processo che, pur con notevoli sfumature, sta avvenendo in vari altri Paesi sudamericani, dove i governi stanno gradualmente abbandonando o correggendo il capitalismo selvaggio degli ultimi decenni per superare l’ingiusta distribuzione della ricchezza e gli annosi problemi di povertà strutturale.

È quanto sta avvenendo in Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay e Cile, attraverso correttivi al principale errore del modello economico neoliberale - che negli anni ‘90 qui ha fatto il bello e cattivo tempo -: la sua fede cieca nella mano invisibile del mercato, capace di generare crescita economica e nel contempo equità. In realtà, “il modello neoliberale ha successo a livello macroeconomico - conferma il Prof. Osvaldo Ferreiro Poch, economista dell’Università Alberto Hurtado di Santiago del Cile -. Il suo punto debole è che non riesce ad accompagnare la dimensione più sociale”.

la neo eletta Presidente del Cile Michelle Bachelet
Per comprendere meglio
L’attuale opposizione di questi governi al Consenso di Washington*, si comprende alla luce dell’esperienza degli ultimi 15 - 16 anni. Durante tale periodo, Fondo Monetario Internazionale (d’ora in poi FMI) e Banca Mondiale predicarono ed imposero, anche in questa regione, le classiche ricette di rigido controllo (leggasi riduzione) della spesa dello Stato, lotta accanita all’inflazione, apertura commerciale indiscriminata, privatizzazione delle imprese pubbliche, flessibilizzazione del mercato finanziario e del lavoro. Lo strumento di pressione utilizzato per imporre queste ricette fu il debito estero, che in quegli anni è cresciuto a dismisura, trasformandosi in un mezzo di controllo politico privilegiato.

Si tratta, indubbiamente, dello stesso modello adottato nel Primo Mondo, ma con una differenza sostanziale: in Sudamerica non esisteva il sistema di Welfare State, capace di ammortizzare gli effetti negativi di tali ricette. In vari Paesi sudamericani, la previdenza sociale è ancora una meta, la cassa integrazione non esiste, i sussidi di disoccupazione, la pensione sociale, il prepensionamento sono spesso un sogno o, nella maggior parte dei casi, aiuti minimi che appena permettono di non morire di fame. La riduzione della spesa statale, per controllare l’inflazione, in economie in permanente crisi, si è tradotta in recessione e strutture fatiscenti o assenti nella pubblica istruzione e nella sanità (in certe zone lontane dai grandi centri si può spesso morire per banali e curabili malattie), con un’assistenza sociale applicata col contagocce.

Negli uffici del FMI si considerarono con fatalismo le ondate di licenziamenti che seguirono le privatizzazioni, senza tener conto che in molti casi si aprì la porta alla disoccupazione cronica, alla miseria, al sottosviluppo.
Il risultato fu tragico: aumento della povertà (in Argentina e Brasile è ancora il 40% della popolazione, il 60% in Bolivia, il 20% in Cile, il 50% in Perù e Paraguay), concentrazione della ricchezza in poche mani, vertiginoso aumento della disuguaglianza: in vari Paesi il 10% più ricco della popolazione guadagna 20, 30, 40 volte di più del 10% più povero.

E questo senza entrare nel capitolo corruzione: una fitta nebbia che avvolge le privatizzazioni, con esorbitanti guadagni per molte holdings del Primo Mondo. Grazie a governanti corrotti, ma anche grazie a impresari corruttori.

Un destino comune
La realtà attuale sudamericana va compresa dunque in tale contesto.
Significa con ciò che si sta formando un blocco regionale progressista o di sinistra, come alcuni paventano?

La realtà è molto meno omogenea. Mentre l’Uruguay e, soprattutto, il Cile sono un esempio di riformismo moderato e di continuità istituzionale, il Venezuela di Chávez appare più esposto a conati di populismo, che spesso affiorano in logoranti quanto sterili polemiche verbali con la Casa Bianca (acerrima nemica del Governo di Caracas). Resta da definire il ruolo di leader regionale del Brasile. Un ruolo fino ad ora indiscusso, dato che si tratta della più forte economia di scala e della maggiore popolazione. Ma questo se e quando il presidente Lula saprà temperare gli interessi brasiliani con quelli comuni della regione. Come in occasione dell’ultimo summit delle Americhe, quando insieme all’argentino Kirchner ed a Chávez, riuscì a neutralizzare la proposta cara a Bush di un’Area di Libero Commercio Americana, che oggi offrirebbe vantaggi solo a Washington.

Non sarà un cammino facile quello dei Paesi sudamericani, impegnati a recuperare le redini del proprio destino. Il principale ostacolo è forse l’atavico individualismo che, finora, non ha favorito la maturazione di processi di integrazione (Patto Andino e Mercosur). Ma esiste l’enorme vantaggio delle comuni radici culturali, una ricchezza tutta da valorizzare. Se son rose, fioriranno.

* Il Consenso di Washington è un sistema, posto sotto la tutela del Dipartimento del Tesoro USA, che raggruppa i 182 membri del FMI e della Banca Mondiale, organismi multilaterali con sede a Washington.

di Alberto Barlocci,
Direttore del mensile “Ciudad Nueva” - Buenos Aires
da Nuovo Progetto giugno-luglio '06

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