Questa è l'Europa!
Pubblicato il 24-03-2021
La crisi sarà molto profonda, lunga e faticosa e dovremo cercare di renderla il meno pericolosa possibile.
L’Unione europea è lì per questo». Il presidente del Parlamento europeo David Sassoli va al cuore del problema: la pandemia è un punto di non ritorno, i suoi effetti si faranno sentire per anni. In un contesto così delicato l’orizzonte comune del continente diventa ancora più importante. Dopo alcuni mesi di incertezza, l’Unione europea ha messo in campo strumenti mai visti per aiutare i Paesi colpiti dal Covid: la sospensione del Patto di stabilità, il pacchetto Sure contro la disoccupazione, il Mes, i fondi Bei, soprattutto il Next Generation Ue, meglio conosciuto come Recovery fund. Risorse da spendere in settori strategici come digitale, infrastrutture, ambiente, salute, istruzione, equità di genere. Solo per l’Italia oltre 200 miliardi, un’opportunità mai vista. «Però l’Europa non può essere solo un bancomat », dice il presidente Sassoli. «Le risorse sono certamente importanti, ma non bastano. Dobbiamo ripartire dai nostri valori. Il mondo ha bisogno di questo».
La classe dirigente, a ogni livello, è all’altezza di questa sfida epocale?
«Volenti o nolenti dobbiamo esserlo, perché abbiamo tutti una responsabilità nei confronti degli altri. Dobbiamo tutti sentirci parte di un problema comune. In questi mesi, l’opinione pubblica europea si è accorta di come l’Unione si sia concentrata nel cercare risposte in grado di affrontare e risolvere la crisi. Certamente i cittadini vorrebbero ancora di più e bisogna ascoltarli, ma nessuno può dire che l’Europa sia stata distratta. Credo che ognuno di noi debba sentirsi parte in causa: l’Europa non è solo l’istituzione con sede a Bruxelles, ma comprende i governi e i parlamenti nazionali, le nostre Regioni, i Comuni, le città. Ogni Paese deve sentirsi coinvolto. Anche perché gli investimenti non arriveranno a pioggia».
Come funzioneranno?
«I soldi saranno elargiti ai 27 Stati membri in proporzioni diverse per fare due cose: avviare il motore della ripresa delle economie nazionali e rendere così l’Europa ancora più forte e più resiliente. In questo modo il continente continuerà ad essere uno strumento di pace. Non possiamo naturalmente imporre niente a nessuno, ma vogliamo partecipare ad un mondo che ha bisogno di regole, perché una globalizzazione senza regole farebbe soltanto gli interessi dei più forti».
L’Europa vive in pace da 75 anni. Eppure, sull’onda della crisi economica, la visione iniziale si è indebolita. Gli ultimi tempi sono stati segnati da nuovi nazionalismi, dal populismo, come se fosse diventato impossibile ragionare in un’ottica comune. Come si è arrivati a questo punto?
«Evidentemente, l’Europa degli ultimi anni non ha saputo stare vicino ai problemi dei cittadini. Quando l’Europa, o anche le nostre istituzioni, si allontanano dagli interessi concreti delle persone e non riescono a dare delle risposte, l’innamoramento finisce e magari gli interessi dei singoli prevalgono. Credo però che la crisi del Covid ci stia portando verso un nuovo paradigma. Tutti ormai si rendono conto che senza una risposta comune, i singoli Paesi saranno ancora più in difficoltà. Stiamo parlando delle imprese, dei cittadini, delle nostre amministrazioni. Sta tornando la fiducia, magari reclamando anche un’Europa con più poteri. Io ne sono convinto: se nel prossimo futuro non vi fosse un trasferimento di poteri dagli Stati nazionali all’Unione, non saremmo in grado di affrontare i problemi. L’Europa deve cambiare nei suoi processi decisionali, deve adeguarsi ai tempi. Una democrazia lenta, una democrazia che non risponde con efficacia, con rapidità ai problemi, come può farsi voler bene dai cittadini?».
Lo abbiamo visto anche in questi ultimi mesi con il ricorso strumentale al diritto di veto di Polonia e Ungheria, Paesi che rischiano derive autoritarie. L’allargamento ad Est è stato troppo precipitoso?
«Certe storie arrivano da lontano. Io non sono tra i cultori di una Europa piccola. L’allargamento ad Est è stato importante, è andato nella direzione di un sogno: far coincidere il nostro spazio geografico con quello politico. Sicuramente, speravamo in una accelerazione del processo di costituzione europea che invece si è bloccato. Detto questo, senza l’allargamento avremmo avuto altri problemi. Abbiamo visto in questi anni tante tensioni ai nostri confini orientali. Se quei Paesi non fossero nell’Unione, come sarebbero oggi quelle frontiere rispetto per esempio a una certa aggressività della Russia? Poi, certo, i problemi rimangono, come il sovranismo che però, lo ricordiamo, non è solo un fenomeno europeo».
Come si contrastano però queste derive?
«Prima di tutto, dando delle risposte ai problemi dei cittadini e alla fatica delle nostre società. Poi, dobbiamo essere vigili sui nostri valori che non possono essere travolti da alcun governo. Abbiamo fissato il principio che l’utilizzo delle risorse europee deve essere vincolato al rispetto dello Stato di diritto. Quindi tutti i governi sono avvertiti, dovranno fare attenzione alle loro leggi e riforme, dovranno continuare a mettere al centro la separazione dei poteri e la liberà di espressione. Dobbiamo essere fieri di una Europa che fa questo».
Negli Stati Uniti sta per insediarsi il nuovo presidente Joe Biden. Gli anni di Trump non sono stati semplici per i rapporti bilaterali con l’Europa. Cosa si aspetta dal nuovo corso americano?
«Credo che uno dei primi impegni della nuova amministrazione sarà la ripresa del dialogo con l’Europa, nel segno di un nuovo multilateralismo. Sarà una stagione molto interessante. Usciamo da anni complicati che però hanno visto l’Europa molto compatta di fronte a chi ha tentato di dividerla. Ci sono state tentazioni dell’amministrazione americana in questo senso, ad esempio sostenendo a spada tratta il Regno Unito dopo la Brexit».
Un altro tema decisivo è l’immigrazione, passato un po’ in secondo piano durante l’emergenza Covid. Rimane un terreno di divisioni profonde. Come lo si può affrontare?
«Noi abbiamo bisogno di una Europa che abbia il potere di intervenire sui problemi dell’immigrazione, ma siamo sempre al punto di partenza. L’Europa svolge un ruolo di supplenza e tutte le volte che interviene lo fa cercando di mettere d’accordo i Paesi che continuano ad avere un potere esclusivo sulle politiche migratorie. Questo lo dico non per scaricare il problema, ma perché il Covid ci insegna che i fenomeni globali devono essere affrontati a livello sovranazionale. L’immigrazione è un problema che nasce da tante questioni che il mondo produce e che si protrarrà anche per i prossimi decenni. Se l’Europa non avrà la possibilità di affrontarlo, i singoli Paesi continueranno a non risolverlo».
Cosa servirebbe in concreto?
«Avremmo bisogno di una semplice regola che ho ribadito sin dal primo giorno della mia elezione: chi arriva in Italia, in Spagna, in Grecia o a Malta, arriva in Europa e il regolamento di Dublino dovrebbe essere riformato in questo senso. Solo così, l’Europa sarebbe messa nella condizione di intervenire con una politica di medio lungo periodo. Come? Nelle democrazie ci sono due ingredienti: la sapienza delle classi politiche e dei rappresentanti dei cittadini e dall’altra parte l’umore delle opinioni pubbliche. Noi pensiamo che una democrazia viva abbia nella partecipazione dei cittadini il suo baricentro. Ad ogni livello dobbiamo dire che senza una riforma, un cambiamento di prospettiva, continueremo semplicemente a tamponare il fenomeno migratorio, intervenendo soltanto a cose fatte, senza programmare il futuro e soprattutto prenderci cura delle persone che ci chiedono aiuto».
L’incapacità di riforme comuni si riflette anche in una politica estera che rimane schizofrenica. L’Europa è maestra di divisioni in questo. Gli interessi nazionali dei singoli Paesi spesso sono in conflitto, come dimostra il caso della Libia. Come si accelera un processo di cambiamento?
«Ci sono cose che non si correggono dal giorno alla notte, perché è chiaro che ci sono stati decenni in cui gli Stati nazionali hanno fatto da sé. E naturalmente hanno espresso valutazioni, sensibilità e interessi che si sono consolidati nel tempo. Io sono fiducioso, credo che se riusciremo al nostro interno ad avere sempre più politiche comuni questo avrà come ricaduta una ripercussione anche sulla politica internazionale. Non possiamo prescindere dagli interessi – lo dico con pudore ma anche con realismo – sappiamo che le Nazioni europee non nascono dal nulla e conosciamo la loro storia, i loro posizionamenti. Però siamo in un momento favorevole per ragionare anche su questi temi. Sia chiaro, noi non saremo mai un gigante aggressivo. L’Europa potrà far valere il suo peso economico e mettere i suoi valori a disposizione degli altri, ma non saremo mai una macchina da guerra.
Questo ci viene anche riconosciuto. Quando c’è un conflitto, si sa che ci si può fidare dell’Unione Europea, che è in grado di far dialogare le parti in causa. Ecco perché dopo 70 anni e dopo aver goduto di una straordinaria stagione di pace, forse possiamo restituire al mondo qualcosa e possiamo farlo solo con questo temperamento, non con altro».
Redazione Unidialogo
NP Gennaio 2021