Popily, Ramona, Ferens, tre vite in cerca di futuro

Pubblicato il 10-08-2011

di irene

Haiti, 27 aprile 2010. La parola che sento ora, come più rappresentativa del mio vissuto in questi mesi, è compassione, intesa nel senso più letterale del termine.

di Irene Panarello

Cari amici, vorrei provare a farvi sentire attraverso le mie parole quello che le persone di questa isola stanno vivendo. Così potrete immaginare quante emozioni e pensieri si siano scatenati dentro di me. Credo che le storie di queste tre persone siano il modo migliore di farlo. Vi chiedo di leggerle con calma, quando avete un pochino di tempo per chiudere gli occhi e immaginare di essere qui, al loro posto.
La prima storia è quella di Popily, una ragazza haitiana di dodici anni. Il terremoto del 12 gennaio ha spazzato via quello che restava della sua infanzia, e non c’è retorica in queste parole. Quel pomeriggio come tanti altri, lei e i suoi famigliari erano nella casa della famiglia in cui lavoravano. Quando la terra ha iniziato a tremare, si sono spaventati a morte, non avevano idea di cosa stesse succedendo, pensavano fosse la fine del mondo. Il peggio è successo quando la casa non ha retto la scossa ed è crollata, seppellendo sotto le macerie la famiglia di Popily. Anche lei è rimasta schiacciata, per ore ha atteso che qualcuno ascoltasse le sue grida e la aiutasse, piena di polvere, senza quasi poter respirare. Finalmente delle braccia amiche l’hanno tirata fuori, messa su una macchina e portata al Foyer Saint Camille, uno dei pochi ospedali rimasti in piedi a Port au Principe. Arrivata in ospedale, ha capito che era successo qualcosa di veramente brutto alla sua gente; ha visto sangue dappertutto, sentito grida che l’hanno fatta rabbrividire, ma nemmeno il dolore l’ha distratta dal cercare in ogni volto quello di sua mamma o di suo papà o di uno dei suoi fratelli. Ma non li ha più ritrovati. I medici le hanno detto che dovevano operarla velocemente e poi non si ricorda più cos’è successo. Quando si è svegliata, la sua gamba destra non aveva più la parte dal ginocchio in giù e nella parte che restava aveva dei ferri, che le facevano male. Dopo qualche ora ha iniziato a capire che cos’era successo e che la sua vita non sarebbe più stata la stessa. Ha dovuto imparare di nuovo a muoversi, lavarsi, pettinarsi, affidandosi all’aiuto di altre persone. Ha trovato qualche amica, molte persone gentili l’hanno aiutata, ma tante volte avrebbe voluto solo una persona della sua famiglia. Pensa spesso a loro e pensa anche a cosa sarà il suo futuro. Come sarà la sua vita quando uscirà dall’ospedale? Potrà camminare ancora? E queste domande pesano come un macigno.
La seconda storia è quella di Ramona, una ragazza di ventuno anni, dominicana di origini haitiane. Vive in un batey nel sud della Repubblica Dominicana, il più povero della zona. I suoi genitori sono haitiani. Suo padre le ha raccontato tante volte di come l’hanno portato via da Haiti, un giorno che con suo fratello stava cercando una capra vicino alla frontiera. I militari dominicani li hanno presi con la forza, messi su autobus con altri giovani haitiani spaventati quanto loro e portati in un batey che era ben lontano da casa loro. Aveva otto anni e non è mai più tornato a casa. A dieci anni ha iniziato a lavorare la canna da zucchero, stando sotto il sole tutto il giorno; il machete diventava pesante dopo qualche ora, i mosquito lo pungevano in continuazione, la fame gli faceva compagnia dalle quattro di mattina, quando usciva per iniziare a lavorare, fino alle diciotto quando esausto tornava alla sua baracca. Ha subito i soprusi di chi pesava la canna e ogni volta gliene rubava qualche tonnellata. Suo papà le ha raccontato che suo nonno era morto a causa della canna da zucchero: quando avevano cercato di portarlo via dal suo campo ad Haiti, aveva opposto resistenza e l’avevano ammazzato. Ramona ha sempre pensato che a causa di tutto questo dolore, nello sguardo di suo padre è rimasto come un velo di sofferenza e malinconia. La canna è stata la sua vita per molto tempo, poi ha conosciuto la mamma di Ramona, si sono sposati e hanno avuto dei figli. Però per lo stato dominicano questi bambini non esistono perché i genitori non hanno documenti e quindi non li possono dichiarare. Nonostante questo i suoi genitori, non con pochi sacrifici, sono riusciti a mandare lei e i suoi fratelli alla scuola del batey, dove non fanno problemi, anche se non hai i documenti. Ramona ha sempre studiato tanto, suo papà le ha detto tante volte che era importante per cambiare la sua vita e avere un futuro migliore. Così oltre ad avere imparato a sopravvivere alla miseria del batey, ha imparato matematica, scienze, letteratura e a sperare in un futuro migliore per lei e per tutta la sua famiglia, anche se sapeva che non sarebbe potuta andare oltre alla terza media senza documenti. Poi nel batey sono arrivate delle donne dicendo che erano disponibili ad aiutarli a cercare di fare la dichiarazione tardiva dei figli per poter poi fare la carta d’identità e ha cominciato a mettere insieme tutto quello che era necessario e a sperare. La trafila burocratica è lunga, ma Ramona ha aspettato con pazienza. Alla fine hanno dato i documenti a diversi ragazzi, ma a lei no. Sembra che ci fosse un nome scritto male o qualcosa del genere, quindi bisogna ricominciare da capo. Ramona ha pianto molto, cosa ne sarà del suo futuro? Senza i documenti non può andare avanti con la scuola e poi se avrà dei figli non li potrà dichiarare. Come fare? A volte sente venir meno la speranza, ma poi suo padre le ricorda di non arrendersi, che i documenti arriveranno e la loro vita potrà essere un po’ migliore.
La terza storia è quella di Ferens, un giovane haitiano. Ha lasciato la scuola presto per dare una mano alla sua famiglia e ha trovato un lavoro in un hotel a Port au Prince. Era lì il pomeriggio del 12 gennaio, quando il terremoto ha tirato giù l’hotel nel giro di qualche secondo. Lui si è salvato per miracolo, è riuscito a scappare quasi subito, ma proprio lì è cominciata la sua tragedia. Non riusciva in nessun modo a parlare con la sua famiglia e ha iniziato a correre disperato verso casa, ma le macerie erano ovunque e rendevano difficile qualsiasi cosa, anche orientarsi. Quando finalmente è riuscito ad arrivare, ma ha visto esattamente quello che sperava di non vedere: la sua casa era accasciata su un lato e una parte era completamente crollata. Ha visto sua madre e due dei suoi fratelli schiacciati e ha sentito le grida di quelli che erano ancora vivi, ma in una posizione impossibile da raggiungere. Non riuscire a fare nulla per salvare suo padre e i suoi fratelli lo stava facendo impazzire. La notte è stata lunghissima, i pianti disperati dei vivi e le grida di dolore di quelli che erano ancora sotto le macerie non lo hanno lasciato dormire. Ha pianto lacrime amare per la sua gente. I giorni successivi sono stati ancora più difficili; i cadaveri erano ovunque, le strade cominciavano a essere piene di un odore di morte terribile, era difficile trovare acqua e cibo. Ha vagato disorientato per vari giorni tra le macerie della sua capitale e i corpi ormai in decomposizione. Ha visto cose che vorrebbe cancellare presto dalla sua mente. Così quando dei signori gli hanno proposto di andare con loro in Repubblica Dominicana per lavorare ha accettato subito. Non gli avevano detto che sarebbe andato in un batey a tagliare canna da zucchero. Già nel viaggio ha capito che qualcosa non andava bene; si è sentito trattare come un animale, su e giù dagli autobus senza rispetto e senza mangiare. Quando poi sono arrivati al batey, ha avuto paura, la canna da zucchero tutto intorno sembra minacciosa e quando ha visto la baracca che doveva dividere con altri quattro ragazzi, non ci poteva credere. La prima di giornata di lavoro l’ha passata disperato, chiedendosi com’era possibile che si trovasse sotto il sole cocente di un altro Paese, a tagliare canna, senza più forze, affamato e distrutto… e tutto per 100 pesos (circa due euro) per una tonnellata di canna tagliata. Cosa ne sarà del suo futuro? Quando l’ho incontrato gli ho chiesto se aveva notizie della sua famiglia e mi ha risposto che li ha lasciati sepolti sotto le macerie; nei suoi occhi si leggevano chiaramente le due tragedie che stava vivendo, una dopo l’altra. 
Irene Panarello

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok