Il mondo nelle nostre mani

Pubblicato il 26-05-2022

di Redazione Sermig

Come leggere la complessità delle relazioni internazionali. Ne parliamo con il politologo Vittorio Emanuele Parsi, ospite dell’Università del Dialogo

Da un mondo fatto per le cose a un mondo fatto per le persone. Utopia? Rivoluzione possibile? Un cambiamento davvero a portata di mano? Ancora presto per dirlo, ma di certo la pandemia rappresenta un punto di passaggio storico. Il politologo Vittorio Emanuele Parsi non ha dubbi. Se tutto tornerà come prima, l’umanità avrà perso un’occasione, ma certi processi non sono affatto scontati.

Professore, la pandemia a livello mondiale ha acuito le diseguaglianze di reddito e anche di accesso alle cure. Quanto ha influito il modello economico attuale?

Tantissimo. Il modello economico è centrale in quello che sta accadendo. Se la finalità sono gli esseri umani, certi presupposti di impostazione di società sono inaccettabili. Dove è scritto che i diritti dei soldi sono più importanti dei diritti della persona?

Dobbiamo cambiare una mentalità costruendo idee e facendo capire che essere generosi, solidali, buoni è qualcosa che fa bene prima di tutto a noi.

Lei ipotizza alcuni scenari per il dopo pandemia. Il primo è quello della restaurazione…

Ed è il peggiore, ovvero la possibilità che si torni sostanzialmente al modello di prima, senza mettere in discussione né i rapporti economici, né quelli politici, ossia le relazioni di potere. È più o meno quello che stiamo vedendo, con la spinta fortissima a credere che torneremo a crescere come prima. Con un paradosso. È vero che stiamo già crescendo come nel 2019, con un pil e un livello di esportazioni ottimo. Peccato che dimentichiamo di avere anche lo stesso tasso di disoccupazione e una distribuzione del reddito totalmente sbilanciata.

Per il secondo scenario usa la metafora della fine dell’impero romano.

Sì, per indicare un processo più lento, un riassestamento dei rapporti di potere tra i grandi attori politici internazionali, ovvero Cina e Stati Uniti. Potremmo assistere in sintesi alla fine della centralità dell’occidente, con tutte le sue contraddizioni positive e negative e il subentro di un’altra centralità. Questo scenario, analogamente alla restaurazione, non mette in discussione i rapporti economici e di potere. Cambia chi sta alla guida, ma sostanzialmente nulla cambia. C’è però una terza possibilità.

Quale?

Il rinascimento, ovvero la fine dell’egemonia di un certo modo di pensare i rapporti economici. La pandemia ci ha indicato questa strada. Per esempio, gli Stati hanno capito che era necessario aiutare le persone, metterle al centro. Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento, ma ognuno deve fare la propria parte.

Che margini ci sono perché questo avvenga?

In questi ultimi anni mi sono dovuto confrontare molto con gli economisti, perché l’economia oggi ha un po’ la funzione che aveva la teologia rispetto alla politica ai tempi di Dante. Se ai suoi tempi volevi affossare un’idea politica dicevi che era un’eresia; se oggi vuoi affossare un’idea politica dici che è insostenibile economicamente. Uso una metafora della navigazione. È come se fossimo su un vascello che sta tenendo un’andatura che presto arriverà a un punto di svolta. Tutto dipenderà dalla perizia, dall’impegno dell’equipaggio: vogliamo tirare come disperati le scotte, le funi? Vogliamo bagnarci per farlo? Siamo disposti o no? È il punto fondamentale. Questo non determinerà la forza del vento, ma l’essere pronti a fare la virata al momento giusto dipende da noi. Credo che gli eventi stiano andando a maturazione insieme alle idee.

La politica che ruolo può giocare in un mondo così complesso?

Un ruolo assolutamente fondamentale. La politica ha la funzione di regolare il potere decisionale. Il potere non è altro che lo strumento per fare le cose, ma la lotta per raggiungerlo devo essere fatta alla luce del sole. La lotta politica è un modo di educare il conflitto sociale.

Ma poi c’è un’altra dimensione della politica altrettanto importante che è la dimensione ideale. Voglio potere per fare che cosa, per trasformare che cosa? E su questo bisogna essere estremamente esigenti.

Come lo si diventa?

Semplicemente volendolo e sporcandosi le mani. So benissimo che è difficile, perché certa politica premia la fedeltà, l’obbedienza, chi non rompe troppo le scatole, la partigianeria.

Tuttavia non possiamo rinunciare ai nostri ideali. Solo alti ideali permettono di raggiungere anche buoni compromessi.

L’altra faccia della politica internazionale è anche il cinismo.

Lo abbiamo visto in Afghanistan dopo il ritiro dell’Occidente. Per venti anni abbiamo alimentato l’utopia dell’esportazione della democrazia, per poi abbandonare il Paese all’oscurantismo dei talebani. Come si possono promuovere oggi i diritti umani? Se c’è una cosa che questi anni hanno certificato dal punto di vista oggettivo è che l’uso della forza non è risolutivo rispetto a niente. Ce lo dimostra benissimo quanto è avvenuto in Afghanistan dove abbiamo perso, nonostante fossimo molto più forti. Nel 2001, si sarebbe dovuto far cadere il governo talebano e lasciare che gli afghani trovassero autonomamente il modo di organizzarsi. Non esistono scorciatoie e soprattutto nessuno è onnipotente.

E poi perché un popolo dovrebbe seguire il nostro esempio se siamo capaci solo di riempirlo di bombe? Detto questo, oggi c’è un problema enorme: gli afghani come popolo stanno morendo di fame. Dovremmo chiederci come aiutarli. È possibile. Dovremmo farlo. L’alternativa è lasciarli morire ed è inaccettabile.

Farlo costerebbe pochissimo, rispetto a quello che spendiamo normalmente quando spariamo addosso a qualcuno. E il mio non è un discorso da pacifista.

Dove vede oggi speranza? E soprattutto che cosa possono fare i singoli?

I singoli possono fare tanto in tema di speranza, perché la speranza è innanzitutto dentro di noi. La speranza vuol dire che io non mi do per vinto. La speranza, anche da un punto di vista laico, è la nostra voglia di batterci per qualche cosa. È pensare che ogni singolo metro che fai può portarti alla fine del campo. È dire: ‘Sono qui. Cosa c’è da fare?’. Possiamo applicare questo metodo al post pandemia, al cambiamento delle relazioni economiche. Le cose succedono solo se noi le facciamo succedere, non cadono dall’alto. Secondo me questa è un’ottima notizia perché se noi possiamo agire negativamente, possiamo fare anche la differenza agendo positivamente.

 

A cura della Redazione NP

NP Febbraio 2022

 

 

 

 

 

 

 

Vulnerabili

Come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo di Vittorio Emanuele Parsi Piemme, 2021 .

Con il Covid-19 l'umanità si è riscoperta vulnerabile. Ci siamo risvegliati di colpo, sbandati, come una nave senza timone. L'umanità deve sfruttare l'occasione della pandemia per ripensare la sua navigazione e la sua rotta. Il post-pandemia potrebbe alimentare il rancore diffuso, oppure rinfocolare una nuova speranza.

 

 

 

 

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok