Il principio di distinzione

Pubblicato il 10-12-2023

di Edoardo Greppi

Il 7 ottobre 2023 Hamas, l’organizzazione politica e militare islamista palestinese (che l’Unione Europea e diversi Stati considerano terroristica) che di fatto controlla la “Striscia” di Gaza, ha sferrato un devastante attacco contro lo Stato d’Israele, con almeno 1.400 morti, oltre 3.000 feriti e 200 persone prese in ostaggio. Israele ha reagito con una pluralità di azioni armate nella “Striscia”, un territorio di 360 kmq con una popolazione di oltre due milioni di persone, di cui un milione e quattrocentomila con lo status di rifugiati, provocando un numero grande e ancora crescente di vittime (alcune migliaia nei primi giorni).

Nel successivo profluvio di reazioni, di valutazioni politiche e del mondo dell’informazione è stato spesso richiamato il diritto internazionale. Provo, quindi, a presentare in queste due pagine “le ragioni del diritto”, spesso neglette nelle situazioni conflittuali che vedono prevalere logiche di guerra, violenza, sopraffazione. L’ordinamento giuridico della comunità internazionale presenta due ambiti di norme applicabili in situazioni drammatiche come quella che vive il Medio Oriente in queste settimane.

Il diritto internazionale ha due ambiti di norme applicabili in questo tipo di situazioni conflittuali: lo jus ad bellum e lo jus in bello.

Il primo ambito è costituito dai principi e regole che conseguono all’affermazione del generale divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, accompagnato da due eccezioni. La prima è la legittima difesa e la seconda è il ricorso alla forza nel sistema di sicurezza collettiva imperniato sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Il secondo ambito è l’insieme delle regole del diritto internazionale umanitario relative alla condotta nelle ostilità e alla protezione di alcune categorie di soggetti, i feriti, i malati, i naufraghi, i prigionieri di guerra e la popolazione civile.

Sotto il primo profilo, le azioni di Hamas del 7 ottobre hanno determinato la risposta militare di Israele, che ha reagito a titolo di legittima difesa secondo il diritto consuetudinario codificato nell’art. 51 della Carta dell’ONU, che consente a uno Stato oggetto di un attacco armato di reagire con la forza. Le condizioni per la legittimità di una risposta militare sono il rispetto dei principi di necessità e proporzionalità. Non vi è alcun dubbio che Israele avesse il diritto alla legittima difesa a fronte degli attacchi subiti.

Il secondo profilo è costituito dal molto ampio complesso delle regole di diritto internazionale umanitario che sono richiamate in quanto applicabili in questa tragedia, lo jus in bello. Questo ambito è molto ricco, essendo costituito dal diritto consuetudinario e dall’ampio corpus delle Convenzioni di Ginevra e dell’Aja. Le infrazioni gravi delle Convenzioni di Ginevra e le serie violazioni delle leggi e consuetudini di guerra sono “crimini di guerra” e comportano la responsabilità penale internazionale di chi li commette. Il I protocollo addizionale alle convenzioni di Ginevra (1977) stabilisce una “regola fondamentale” (così e intitolato l’art. 48), il principio di distinzione, che obbliga le parti in conflitto a ≪fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari≫.

Questo è la pietra miliare, il riferimento essenziale e inderogabile. Gli attacchi contro i civili sono vietati, sono – appunto – “crimini di guerra”. Gli attacchi possono e debbono essere diretti soltanto contro combattenti e obiettivi militari. In questo conflitto, entrambe le parti hanno dichiarato che non avrebbero lanciato attacchi contro i civili. Il principio di precauzione richiede anche che siano evitati i cosiddetti (brutta espressione invero!) “effetti collaterali”.

Il diritto umanitario vieta altresì la presa di ostaggi. Anche questa costituisce “crimine di guerra”. Parimenti costituisce “crimine di guerra” la privazione di cibo, acqua, energia elettrica e, in linea generale, di beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. Insomma, sono crimini di guerra il lancio di migliaia di razzi sulle città israeliane, l’uccisione di civili, la presa di ostaggi, l’utilizzo dei civili come scudi umani per proteggere i miliziani combattenti e le installazioni militari.

Parimenti, sono crimini di guerra i bombardamenti israeliani dei centri abitati palestinesi, l’assedio e il privare di cibo, medicinali, acqua, elettricità una intera popolazione. In linea generale, ha suscitato indignazione la dichiarazione del ministro della difesa israeliano Gallant che, annunciando un ≪assedio a Gaza≫, ha dichiarato che ≪stiamo combattendo animali umani, e agiremo di conseguenza≫. A parte un inaccettabile linguaggio che disumanizza l’avversario, il “perché” e il “come” di una guerra sono due questioni giuridiche separate. La giustizia o ingiustizia di una causa di guerra non modifica l’obbligo di combatterla nel rispetto delle norme del diritto internazionale umanitario.

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa ha commentato i tragici fatti di questi giorni. ≪Oggi non ha molto più senso andare a scavare su cosa abbia portato a questa situazione. Siamo in una fase nuova, drammatica. Sarà difficile dopo questa guerra riscostruire un minimo di fiducia tra le due parti. Ma questa e una necessità perché israeliani e palestinesi rimarranno qui. La domanda è “come” e “quando”: ci vorrà molto tempo, pazienza e l’opera di tante persone di buona volontà≫.


Edoardo Greppi
NP novembre 2023

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