Il perdono fa breccia e dona uno sguardo nuovo

Pubblicato il 30-03-2023

di Redazione Sermig

Ogni volta che inizia un nuovo anno, nutriamo la speranza che il futuro sia migliore del passato. Mai come oggi abbiamo bisogno di speranza per affrontare il presente e ciò che avverrà

La speranza non è illusione, è un’autentica opportunità per uno sguardo nuovo. Uno sguardo che parte dal perdono, aprendo una breccia nel risentimento, nel desiderio di rivalsa verso chi ci ha ferito e, a volte, ci ha tolto tutto o quasi.

Ci sono esempi che raccontano che è possibile.

È l’esperienza di Elvira Mujcic, scrittrice italo bosniaca. Colpita negli affetti famigliari nella strage di Srebrenica, riflette su come costruire la propria vita senza rimanere immobilizzati dal passato.

È la lezione, mai abbastanza recepita, della storia.

Renato Bonomo e Gianni Oliva ci ricordano il suo valore civile, che può ricostruire le relazioni di un tessuto sociale lacerato attraverso il riconoscimento e il superamento di memorie contrapposte.

Una terza riflessione ce la dona fratel MichaelDavide Semeraro, priore dell’abbazia benedettina della Novalesa. Con lui riscopriamo la forza del perdono e della riconciliazione, che permettono di riscoprire nell’altro il volto del fratello e non più del nemico.

 

Il dolore non Vince

La testimonianza della scrittrice Elvira Mujcic, una ragazzina nella guerra di Bosnia

Ci sono pochi luoghi al mondo per definire l’abisso. Srebrenica, in Bosnia, è uno di questi. Una distesa infinita di lapidi bianche. Tutti uomini e ragazzi. La stessa data di morte: luglio 1995. Le coordinate del primo genocidio in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Oltre 8mila bosniaci musulmani vittime del piombo dell’esercito e delle bande paramilitari serbo-bosniache. Le vittime separate dalle famiglie, portate in luoghi appartati, fucilate, poi sepolte in fosse comuni improvvisate. Dopo quasi 30 anni molti corpi non sono stati ancora ritrovati. Dietro i numeri, la storia di persone come noi, di vite cancellate e altre vite sospese, quelle dei famigliari, di chi oggi ha solo ricordi e in molti casi nemmeno una tomba su cui piangere. La guerra è anche questo. La scrittrice Elvira Mujcic oggi ha 42 anni. All’epoca era una ragazzina. «Andammo via pochi giorni prima dell’assedio con mia mamma e i miei fratelli - racconta mentre mio padre, mio zio e gli altri uomini della mia famiglia restarono. Per loro fu impossibile lasciare il paese, circondato ovunque da gruppi paramilitari. Scomparvero nel nulla come tanti». Per Elvira, la mamma e i fratelli l’inizio di una nuova vita in Italia come profughi, accolti in un piccolo paese in Val Camonica. Oggi quella storia rimane dentro. Impossibile dimenticarla.

Nonostante tutto, lei oggi dice che non vuole rimanere bloccata nel ruolo di vittima e prigioniera di quella tragedia, perché significherebbe perdere di vista il futuro. Cosa significa?

Testimoniare è fondamentale, ma non lo si può fare per sempre perché il rischio è non permettere all’esperienza vissuta di trasformarsi in memoria. Se questo non avviene si rimane chiusi in una specie di gabbia e non si riesce in nessuno modo a prendere le distanze. A me ha aiutato molto la scrittura che permette proprio un’elaborazione del passato in qualcosa di nuovo. Mi piace ricordare la frase di un bellissimo romanzo di Christa Wolff, Le travi d’infanzia, dove si afferma che il passato non è mai morto, non è mai passato, perché la memoria ci permette di farlo crescere e anche di trasformarlo. Questo compito è molto più complesso della semplice testimonianza. Un’esperienza come quella che ho vissuto ti può affossare e farti perdere di vista qualsiasi tipo di futuro. La cosa giusta però è farla diventare occasione per te e per gli altri, per entrare in relazione e non cadere nella retorica.

In un cammino di questo tipo come si fa a fare i conti con il dolore?

Forse noi abbiamo un’immagine fuorviante del fare pace con il dolore. Lo dico perché forse non si fa mai davvero pace con le esperienze vissute, non si ricuce mai del tutto quello che si è interrotto, spezzato. Nella mia esperienza personale, penso alla mia infanzia. Certe cose non torneranno più: la mia casa, il mio mondo, tutto quello che ho perso. Questa è una certezza. Il dolore non lo cancelli.

Cosa si può fare allora?

Bisogna essere consapevoli che il dolore cambia forma, per fortuna anche l’intensità, altrimenti non sarebbe possibile portarlo avanti nel tempo. Secondo me si fa pace interagendo continuamente con le cose che ci sono capitate perché ogni esperienza vissuta ci chiama continuamente in causa. È come se ci presentasse ogni volta delle dimensioni nuove. Per questo dico che non è possibile fare i conti una volta per tutte con il passato, perché i conti non torneranno mai e perché non siamo mai in parità con le cose che abbiamo vissuto. Le ferite ci sono e non è possibile aggirarle o rimuoverle. Possiamo solo provare a ricucirle.

Come?

Parto da un esempio concretissimo legato alla lingua. Fino ai 14 anni sono stata di madre lingua bosniaca, poi sono arrivata in Italia, ho imparato l’italiano che è stato uno strumento formidabile di elaborazione. Parlare in italiano rendeva tutto più leggero, a tal punto che oggi quando torno in Bosnia in un certo senso ritrovo un’altra me stessa, quella 14enne pietrificata in quel luogo senza essere mai diventata adulta. Un paradosso perché invece in Italia sono una donna che però non ha avuto un’infanzia in “italiano” se posso dire. Come si fa ad unire queste due persone completamente diverse? È il mio impegno quotidiano, con cadute e riprese. Un metodo che vale per tutti.

In che senso?

La vita è questa, anche se non sei stato un profugo di guerra. Vivere significa attraversare ogni giorno i propri dolori, portarseli dietro, cercare di non farsi schiacciare, sapendo però che non puoi liberartene. È impossibile pensare di essere completamente risolti. Qualcuno può prendere queste parole per rassegnazione, ma per me non è così. Anzi, è il lato bello della nostra esperienza. Ogni passaggio fa parte del nostro percorso di vita. Quindi, lo ripeto, l’importante non è fare i conti ma cercare di stare dentro la realtà per arrivare da qualche parte.

Nel luglio del 1995, oltre 8mila bosniaci musulmani furono uccisi dal piombo dell’esercito e delle bande paramilitari serbo-bosniache. Le vittime separate dalle famiglie, portate in luoghi appartati, fucilate, poi sepolte in fosse comuni improvvisate

Redazione NP

 

Le memorie riconosciute

Il valore civile della storia come occasione per ricomporre il tessuto sociale delle comunità

Nell’estate del 2019, il distretto scolastico di San Francisco, l’organo elettivo che decide sui programmi e le attività scolastiche della città, ha deliberato di rimuovere dalle pareti del liceo Washington alcune scene dei murales che dagli anni Trenta raccontano la vita del primo presidente degli Stati Uniti. A detta del distretto, quei murales dovevano essere cancellati perché rappresentano il fatto che Washington fu schiavista e nemico degli indiani. Il 24 giugno 2021 a Barranquilla, Colombia, veniva abbattuta con le corde la statua di Colombo: la sua testa è stata poi portata in trionfo per le vie della città. Colombo è un bersaglio piuttosto popolare: negli ultimi anni, negli USA e in molti Stati latino-americani, si è assistito a numerosissime distruzioni delle sue statue con la motivazione che non è possibile celebrare l’iniziatore del genocidio dei popoli indigeni americani. Questi esempi di “cultura della cancellazione” nascondono un intento revisionistico che ha come oggetto una rilettura radicale della storia. Quasi un desiderio di purificare il passato dai suoi errori e dagli elementi negativi per generare un’umanità nuova. Intento apparentemente lodevole, ma quanto mai pericoloso e decisamente inumano.

Forse vale la pena fare un passo indietro e porsi una domanda basilare, quasi banale: perché la storia oggi? Perché in mezzo a così tanti revisionismi e negazionismi (dalla shoah, passando per il Covid e i vaccini, fino ad arrivare ai risultati elettorali come nel caso Trump), abbiamo bisogno della storia? E di che storia abbiamo bisogno?

Tutti i regimi politici (anche quelli democratici) e i movimenti d’opinione fanno un uso politico della storia, volto a legittimare la loro posizione di potere. Chiariamoci: tutti i sistemi politici “utilizzano” la storia più o meno marcatamente. È successo con il fascismo e al suo ricorso all’Impero romano, è successo anche nel regno d’Italia che ha voluto presentare il Risorgimento lineare e senza contraddizioni, succede oggi nella Russia di Putin e nell’Ucraina di Zelensky. Quanto questo atteggiamento è legittimo? Quando è propaganda? Quali strumenti abbiamo per evitare che la storia diventi uno mero strumento di lotta politica, un baluardo ideologico da contrapporre ai nostri avversari? Nel nostro caso poi è centrale indagare il rapporto tra democrazia e storia: il fatto che tutti abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione non significa che tutte le opinioni siano fondate e adeguate. La storia è stata forse la prima disciplina che ha dovuto confrontarsi sistematicamente con il negazionismo e il revisionismo eretti a sistema e ha dovuto elaborare anticorpi per poter combattere queste derive pseudo storiche che ora invadono diversi ambiti della nostra vita.

In particolare, l’argine decisivo ad ogni deriva relativistico-negazionistica è ricordarci che la storia è una disciplina “scientifica”. Ovviamente non nel senso delle scienze naturali. A differenza di queste che producono previsioni, la storia è soggetta a interpretazioni perché ha a che fare con l’uomo, le sue azioni e il suo pensiero. Ma le interpretazioni devono essere svolte con criterio e devono fondarsi su rigorose ricostruzioni fattuali e analisi documentali, secondo procedure e metodologie condivise dalla comunità scientifica. Interpretazione non vuol dire arbitrio, non vuole dire accettare qualsiasi affermazione! Il confronto tra interpretazioni storicamente fondate è il senso della narrazione storiografica.

Queste considerazioni ci permettono poi di fare chiarezza a proposito della distinzione tra storia e memoria (non diamola mai per scontata). Se le memorie individuali e collettive sono per loro natura divisive (fascisti/ antifascisti, bosniaci/serbi/croati nella ex-Jugoslavia), solo un approccio scientifico della storia può unire: «Se la memoria è un luogo del potere, se autorizza manipolazioni consapevoli o inconsapevoli, se obbedisce a interessi individuali o collettivi, la storia, come tutte le scienze, ha per norme la verità» (Le Goff, Storia). Il valore civile della storia sta proprio in questo: riconoscere il valore delle diverse memorie, ma allo stesso tempo permettere ad una società di superare la frammentazione, l’unilateralità dei punti di vista, la contrapposizione attraverso comprensioni storiche articolate e svincolate da interessi di parte.

Ogni epoca è chiamata a riscrivere la storia, anche la nostra. Il dialogo con il passato deve rimanere vivo e continuo, ogni generazione è chiamata a dare senso e ad appropriarsi degli avvenimenti passati in quanto spinta dalle esigenze del presente a interrogare ciò che è accaduto per potersi orientare nel futuro. Non una mera riproposizione di ciò che è stato, ma uno sforzo creativo consapevole, attento e responsabile. Perché ogni storia è sempre – come ricordava Croce – storia contemporanea.

«Se la memoria è un luogo del potere, se autorizza manipolazioni consapevoli o inconsapevoli, se obbedisce a interessi individuali o collettivi, la storia, come tutte le scienze, ha per norme la verità» (Jacques Le Goff, Storia)

Renato Bonomo

 

Dal ricordo, un patrimonio comune

Il 13 luglio 2020 SERGIO MATTARELLA e BORUT PAHOR (presidente della repubblica di Slovenia) depongono una corona di fiori presso il monumento dei caduti sloveni presso la lastra di ferro che copre l’ingresso della foiba di Basovizza foto Presidenza della repubblica

La memoria condivisa è un po’ complicata da realizzare, in quanto ognuno ha la propria memoria. Quel che si dovrebbe arrivare a raggiungere è la memoria riconosciuta: «Io ho la mia memoria ma riconosco anche i diritti della tua memoria». Ricordo, a proposito dei rapporti con la ex Jugoslavia, che di recente c’è stato un gesto significativo, quando l’anno scorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Borut Pahor, presidente della Repubblica slovena, sono andati insieme alla foiba di Basovizza, che in qualche modo è il simbolo delle violenze del regime titino nei confronti degli italiani e poi sono andati su una lapide che ricorda quattro giovani antifascisti sloveni condannati a morte e giustiziati nel 1930. E che quindi sono il simbolo della violenza che l’Italia fascista ha commesso nei confronti della popolazione jugoslava. Sergio Mattarella in quell’occasione affermò che «la storia non si cancella: possiamo coltivarla con rancore, oppure fare della sofferenza un patrimonio comune nel ricordo». Questi sono i tipi di memoria che si possono riconoscere. Nella storia i torti e le ragioni non si dividono a metà come un panetto di burro ma – come diceva già Manzoni ne I promessi sposi – sfumano uno nell’altro e allora quello che possiamo fare è avere delle memorie riconosciute attraverso il riconoscimento delle ragioni per cui le storie sono capitate.

Gianni Oliva (storico e scrittore)

 

Il perdono salverà il mondo

La riconciliazione ha la forza di guarire noi stessi e la relazione con l’altro

Tutti ricordiamo il famoso testo di Dostoevskij in cui al principe Myškin il quale aveva affermato che la «bellezza salverà il mondo» si chiede in modo incalzante: «Quale bellezza salverà il mondo?». Facendo eco al romanzo, possiamo affermare con una cerca enfasi che il «perdono salverà il mondo». Più precisamente possiamo proclamare che «senza perdono il mondo non si salverà», ma dobbiamo aggiungere onestamente: «Quale perdono salverà il mondo». Come spiega padre Timothy Radcliffe: «Noi chiediamo perdono non perché siamo radicalmente cattivi, ma perché siamo fatti per ciò che è fuori da ogni attesa. […] Abbiamo bisogno del perdono, ma sappiamo che il perdono è dato ed è stato dato ben prima che noi avessimo peccato: dobbiamo solo accoglierlo» (Faites le plongeon, Cerf, Paris 2012, pp. 198-199).

Il perdono ci viene offerto certamente da Dio in modo incondizionato, unilaterale e primario tanto da essere la causa e lo stimolo del cammino concreto di conversione per diventare a nostra volta capaci di perdono per essere costruttori di pace e artigiani di riconciliazione. Lo chiediamo continuamente quando ripetiamo la Preghiera del Signore che ci è stata solennemente consegnata subito dopo il Battesimo: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi rimettiamo ai nostri debitori».

Tra tutte le invocazioni del Padre Nostro, certamente quella su cui ci attardiamo ora è la più “terapeutica”. Il perdono non solo “riposa” – come diceva Cesario di Arles – ma libera il cuore rendendolo leggero di tutto ciò che rischia non solo di appesantirlo, ma perfino di impietrirlo. Il perdono riposa, perché aiuta a guardare gli eventi in modo ampio rinunciando ad un’intelligenza parziale della storia a vantaggio di una crescente consapevolezza di quella parte delle nostre e altrui vicissitudini di cui ci sfugge il senso più vero e profondo. Perdonare è possibile solo nella misura in cui si è capaci di fare un passo indietro riguardo all’illusione di sapere tutto e di controllare ogni cosa: della vita – prima di tutto della nostra – ci manca sempre qualche pezzo. Questa rinuncia riposa e questo disarmo dà sollievo. Il perdono ci permette di cogliere e accogliere quello che siamo stati capaci di fare per quello che ci è stato possibile. Nel duro contesto della Shoah, Etty Hillesum sembra aver imparato questa lezione fondamentale di vita: «Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero: allora si conoscono tutte le qualità degli uomini, buone e cattive. E se vogliamo perdonare agli altri, dobbiamo prima perdonare a noi stessi i nostri difetti. È forse la cosa più difficile, come constato così spesso negli altri e un tempo anche in me, ora non più: sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri errori. Il che significa anzitutto saperli generosamente accettare» (Diario, pp. 765-766).

La capacità e la volontà di entrare nel dinamismo del perdono è il segno inequivocabile della nostra appartenenza a Cristo ed autentica il nostro discepolato. Così avvenne per il protomartire Stefano, fatto in tutto e fino in fondo simile al suo Maestro e Signore, il quale: «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”» (At 7, 60). Finché non sappiamo perdonare, non siamo ancora realmente discepoli del Signore Gesù né possiamo considerarci formati alla scuola del suo Vangelo. Il perdono è il banco di prova del discepolo di Cristo, perché, evangelicamente parlando e vivendo, si rende necessario essere capaci di andare oltre le ragioni e oltre la giustizia. Il perdono è sempre paradossalmente “ingiusto” proprio perché supera e porta a compimento ogni “giustizia” (Mt 5, 20). Non si è mai obbligati e costretti a perdonare, ma lo si sceglie liberamente, incondizionatamente. Il perdono è un atto di libertà assoluta che esige, e al contempo crea, la liberazione da ogni aspettativa di reciprocità. Lo stesso Corano ricorda ai fedeli dell’Islam che: «Il contraccambio del male è soltanto un altro male pari al primo. Ma chi perdona e si riconcilia trova la sua ricompensa presso Allah» (Sura XLII, 40).

Uno dei più grandi inganni del male è di creare il bisogno di un contraccambio che, purtroppo, lo rende cronico. Quando il male ricevuto esige la cura del contraccambio per guarire, in realtà non fa che peggiorare fino a diventare un circolo vizioso che non lascia scampo, togliendo ogni possibilità alla riconciliazione come stile di relazione e forma di abitazione del mondo e pellegrinaggio nella storia. L’unico vero argine al male è il perdono che toglie l’ossigeno alla fiamma della vendetta per evitare che dilaghi in attesa che si smorzi fino a spegnersi. Non si tratta di rinunciare alla giustizia, significa riconoscere che nessuna giustizia può sostituire il necessario perdono. Il Signore non ci lascia scampo: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5, 20). Non si tratta certo di una super-giustizia: siamo posti di fronte al mistero della misericordia, la quale non si sottrae al lungo lavoro della giustizia, ma sempre lo supera portandolo così al suo reale compimento. Perdonare non significa dimenticare né entrare in una sorta di negazionismo degli eventi e dei comportamenti, ma significa non identificare mai nessuno con il male che ha compiuto o che ci ha fatto. Si tratta di lasciare sempre uno spazio al mistero dell’altro, come pure al nostro che non si identifica mai con la somma matematica degli atti compiuti, omessi o fatti a metà. Come ricordava Platone: «Chi comprende tutto, perdona tutto».

Per questo, se la giustizia è un argomento di cui si può parlare fino a combattere perché sia fatta e riconosciuta, il perdono invece lo si decide e lo si sceglie al cospetto di Dio. Il perdono fa tutt’uno con la preghiera e per questo si vive nell’intimità della coscienza. Sia la tradizione ebraica che la sua ricomprensione cristiana pongono il perdono alla base della sussistenza del mondo che non può sperare in un futuro sostenibile senza la disponibilità alla riconciliazione. Il perdono rende possibile alle creature di vivere e di portare a compimento la loro esistenza le une accanto alle altre: «Raccontava Rabbi Eliezer: “Fino a che il mondo non fu creato, c’era il Santo, benedetto egli sia, e il suo grande nome soltanto. Gli salì dalla mente di creare il mondo, e modellava il mondo davanti a sé, ma esso non stava ritto. Un esempio. È come un re che vuole costruire il suo palazzo: se non incava nella terra le sue fondamenta e i pilastri delle sue arcate e delle sue uscite, non comincia a costruire. Così il santo, benedetto egli sia: modellò il mondo davanti a sé, ma esso non stava ritto fino a che non creò il perdono» (M. Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1985, p. 567).

A partire da questo testo rabbinico possiamo dire che la creazione del perdono permette alla creazione di non accontentarsi di esistere, ma di conoscere la gioia di “essere” e di “esserci” nel senso pieno del termine. Ambrogio di Milano, quando contempla il mistero della creazione, sembra concordare radicalmente con Rabbi Eliezer: «Qui si ferma il nostro discorso perché si è compiuto il sesto giorno ed è finita tutta l’opera della creazione; voglio parlare dell’uomo e della sua perfezione: in lui è il principio di tutti gli esseri animati e in qualche modo la totalità dell’universo e tutta la bellezza della creazione. Faccia-mo silenzio, dunque, poiché Dio si è riposato da tutte le opere di questo mondo. Si è riposato nel segreto del cuore dell’uomo, nel suo spirito, nel suo pensiero… Rendo grazie al Signore nostro Dio, la cui opera è giunta al termine! Fece il cielo e non si riposò. Il sole e la luna e gli astri e non si riposò neppure in essi; ma fatto l’uomo, si riposò perché aveva uno al quale poteva perdonare!» (Esamerone, X, 75).

Creati a «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1, 26) non possiamo che imitare il nostro Creatore per essere degni di essere discepoli del nostro Signore e Maestro il quale dice: «Beati i miti perché erediteranno la terra» e aggiunge «Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5).

«Abbiamo bisogno del perdono, ma sappiamo che il perdono è dato ed è stato dato ben prima che noi avessimo peccato: dobbiamo solo accoglierlo» Timothy Radcliffe

fr MichaelDavide Semeraro*

 

La grazia della riconciliazione

Elisa Springer, sopravvissuta ad Auschwitz, premio Artigiano della pace 2003

Molte volte mi si chiede dove era Dio ad Auschwitz. Rispondo che Dio c’è sempre, Dio c’è dappertutto, non dobbiamo prendercela con Dio. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti noi, ma oggi bisogna chiedersi nel cuore di quanti di noi c’è ancora posto per lui, per cambiare l’odio in amore. L’odio non serve a nulla, è come un grande fiume che quando straripa trascina con sé lungo il suo percorso tutto quello che incontra e poi l’uomo resta solo, si guarda intorno e si chiede come è potuto accadere.

È ancora questo lo scopo per cui mi trovo oggi qui: per implorare la grazia della riconciliazione – da Dio innanzitutto che, solo, può aprire e purificare i nostri cuori; dagli uomini poi che qui hanno sofferto, e infine la grazia della riconciliazione per tutti coloro che, in quest'ora della nostra storia, soffrono in modo nuovo sotto il potere dell'odio e sotto la violenza fomentata dall'odio.

Benedetto XVI ad Auschwitz, 28 maggio 2006

 

Redazione NP

NP Gennaio 2023

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