Il cantiere della fraternità

Pubblicato il 12-11-2023

di Redazione Sermig

Si fa presto a dire fraternità.
Più complesso viverla, costruirla, specie quando tutto sembra andare nel verso contrario. Succede ovunque.
Padre Christian Carlassare lo ha capito nella sua esperienza missionaria in Sud Sudan, la nazione più giovane del mondo, indipendente dal 2011.
Originario di Vicenza, 45 anni, da due è vescovo della diocesi di Rumbek.
La sua vita oggi è in Africa, continente bellissimo e tragico insieme: il continente delle distese immense e delle risorse naturali, del calore e della vicinanza, ma anche delle guerre, degli odi tribali, della violenza.
Ma è proprio lì che possono aprirsi strade di fraternità

Lei è arrivato in Sud Sudan da giovane prete nel 2005. Sono passati tanti anni. Che Paese aveva trovato?
I primi anni sono stati difficili, senza niente, ogni cosa distrutta dalla guerra, però c’era la comunità che mi ha accolto, una rete di relazioni di solidarietà con cui riuscivano a sopperire ad ogni mancanza.
Mi hanno accolto dicendomi che avevano pregato per avere un padre e il Signore li aveva esauditi con un padre dal volto di ragazzo.
Con loro ho capito che non esiste povertà che ci impedisca di condividere e donare agli altri. Io sono stato adottato da molte famiglie quando ho iniziato la mia permanenza: ho toccato con mano la loro solidarietà.

Può fare qualche esempio?
Volentieri. All’inizio della mia presenza in Sud Sudan, il territorio della mia prima parrocchia era enorme. Per nove mesi all’anno ero continuamente in giro e dipendevo in tutto e per tutto dalla generosità delle varie comunità: mi davano da mangiare, da bere, mi lavavano i vestiti, non mi hanno mai lasciato solo. Anche quando la guerra bussava alle porte della parrocchia e avevo lo zaino pronto a scappare, non mi sono mai sentito solo. C’è sempre stato qualcuno disposto a stare con me.

La sua nomina a vescovo è stata come un sigillo. Due settimane prima dell’ordinazione, è stato vittima di un agguato. Mandante un prete della diocesi contrario al suo arrivo. Una ferita evidente all’idea di fraternità…
Sì, mi hanno sparato alle gambe. È stata un’esperienza di profonda sofferenza.
Ricordo che quel giorno avevamo pregato il Vangelo del buon pastore: era un messaggio di servizio che Gesù dava ai suoi, l’idea di dare la vita non per un tornaconto personale. Dopo l’attentato ho capito che la violenza che avevo ricevuto era un modo per farmi prossimo a quella gente che tanto aveva sofferto. Ho deciso di andare avanti e di rimanere a Rumbek per loro, per tutte quelle persone che non possono fuggire dalla guerra. L’attentato è come se mi avesse permesso di diventare padre e fratello di tutta quella gente che prima non mi conosceva.

Un messaggio fortissimo…
Direi l’inizio di un cammino in una realtà fatta di luci e ombre. Una cosa bellissima della società africana è proprio l’idea di fondo della fraternità. Nella cultura locale, l’individuo vale solo in relazione a quello che può fare per la comunità.
È un tratto tipico, che però comporta anche dei rischi. Se pensiamo al Sud Sudan, abbiamo di fronte una società formata da decine di tribù, divise in clan.
Prima dello Stato, c’è l’appartenenza a questi gruppi etnici. Quindi da una parte ci sono relazioni molto forti, dall’altra tuttavia prevalgono interessi di parte.

È possibile andare oltre?
Bisogna aiutare la gente a guardare con occhi nuovi chi appartiene a un gruppo diverso, superando la logica del nemico e provando a riconoscere nell’altro un amico. Io come missionario cerco di farmi tutto a tutti, il Vangelo è un segno di grande comunione perché possiamo essere tutti uno in Cristo. Il grande pellegrinaggio di nove giorni di oltre 400 km per preparare la visita di Francesco è stato un tentativo per mostrare nei vari villaggi che la pace e la fratellanza sono possibili. Come? Puntando sui giovani e sull’educazione.
Dalla scuola possiamo aspettarci la vera liberazione di un popolo.

In concreto come si può costruire fraternità?
Nella mia esperienza ho capito che spesso l’odio e la paura nascono da pregiudizi che nascono perché non ci conosciamo abbastanza. Dobbiamo riconoscere il valore della sofferenza altrui, a volte il dolore ci annebbia la vista soprattutto quando non viene riconosciuto. Vivere la fraternità per me significa dunque vivere il perdono. L’ho capito dopo l’attentato. Quando mi hanno sparato, pensavo di morire e ho detto al Signore di prendermi. Poi mi sono svegliato e sono riuscito a esprimere le prime parole che sono state rivolte subito al perdono.
Sia chiaro, il perdono è un dono che riceviamo e che ci chiede di convertire il cuore a Dio, al Vangelo e ai fratelli. È un percorso che ci chiede di costruire relazioni e cambiare il corso della storia.

In tutto questo, quanto influisce il contesto?
Molto, anche se non ha senso associare l’Africa all’idea di povertà. L’Africa piuttosto è impoverita. Mi spiego. Il continente è ricchissimo di risorse, l’Europa no. La stortura è nelle logiche dell’economia mondiale che rimane nelle mani delle grandi potenze. Noi ne vediamo gli effetti. Questo sistema, per esempio, non ha interesse di mettere al centro l’istruzione dei giovani del Sud Sudan e lo sviluppo. È la condizione necessaria perché il Paese rimanga sottomesso agli interessi dei Paesi più ricchi. La verità è che siamo noi ad impoverire i popoli.

Lo sviluppo può essere dunque una chiave per la fraternità?
Sì, ma a una condizione. I progetti per lo sviluppo sono buoni e danno valore economico aggiunto se nascono in una comunità forte e responsabile.
Altrimenti possono generare invidia, divisione e discordie. Il vero sviluppo avviene quando le comunità non si sentono beneficiarie: bisogna aiutare le persone a mettersi in gioco. Partire da quello che possiamo dare e mettere a disposizione e non da quello che possiamo ricevere. Questa è la chiave per il vero e autentico progresso.

Il tema dei migranti in Occidente è tornato ad essere un terreno di scontro, l’esatto contrario della fraternità. Qual è la giusta lettura di questo fenomeno?
Io vedo un mondo in movimento, come è sempre stato. Una volta era solo più difficile viaggiare, ora è più facile.
La gente vuole muoversi. Sarebbe bello aiutarli a casa loro, ma come si fa in Sud Sudan quando quattro milioni di persone sono sfollate per la guerra o per il cambiamento climatico? Queste persone vogliono solo avere una vita normale, trovare un lavoro, dare sicurezza alle proprie famiglie. Ma non dobbiamo dimenticare un dato.
C’è un'Africa che si muove all’estero, certo, ma c’è anche un'Africa che accoglie i propri figli che sono costretti a lasciare i loro Paesi. Il Sud Sudan, per esempio, accoglie profughi dal Sudan in guerra. Il fenomeno dell’immigrazione prende forme diverse in base a come lo governiamo. Ci farà paura se continueremo ad essere dominati alla paura, lo vedremo come risorsa se impareremo a gestirlo. Qualcuno parla di sostituzione etnica, io vorrei parlare di valorizzazione etnica, di ricchezza che nasce dall’incontro.
 

a cura della Redazione
NP ottobre 2023

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