Ero l'uomo della guerra

Pubblicato il 17-02-2024

di Redazione Sermig

Vito Alfieri Fontana non è un eroe, ma una persona che ha avuto il coraggio di ascoltarsi e di ascoltare. Una vita in due atti.
Il primo: uomo della guerra, uno dei principali produttori al mondo di mine antiuomo, almeno cinque milioni uscite dalla sua fabbrica, la Tecnovar. Il secondo: uomo di pace, sminatore nei Balcani, tra i più apprezzati. Una conversione nata dalla domanda di un bambino di dieci anni che un giorno inchiodò il padre alle sue responsabilità. «Papà, ma tu produci armi? Ma allora sei un assassino!». Nulla fu più come prima. «È stato come se le increspature piano piano si allargassero », racconta oggi Vito.



A un certo punto il peso diventò insostenibile…
Sì, erano armi terribili.
C’era un capitolato da rispettare, delle specifiche.
Una mina ha un carico di funzionamento dai 5 ai 20 kg, non di meno e non di più.
Una volta funzionante deve essere in grado di perforare una piastra d’acciaio 50 cm per 50 cm per 5 mm di spessore.
Deve funzionare da -40 gradi a +70 gradi, sotto 3 cm di neve o immerso sotto 10 cm d’acqua.
Dentro la fabbrica non entra l’uomo, dentro la fabbrica chi passa sopra le mine non esiste, è solo una piastra metallica.
Non esistevano pensieri né retropensieri: si progetta un prodotto, lo si ingegnerizza e poi lo si produce. Ma a un certo punto ho detto basta…

Cosa ha influito oltre alla domanda di tuo figlio?
Negli anni ’90 cominciarono campagne di pressione fortissime per la messa al bando delle mine antiuomo. Organizzazioni umanitarie come Emergency o Medici senza frontiere cominciarono a denunciare le conseguenze sui civili, sulle vittime. Ci sono mine che comportano ferite gravi come l’amputazione di una gamba e poi ci sono quelle che quando esplodono diffondono schegge per circa 6mila mq e quelle uccidono. Poi si deve tener presente che i teatri di guerra dopo i conflitti sono cosparsi di armi inesplose: solo il 60-70% delle armi cosiddette intelligenti funziona e quindi rimane lì sul terreno.
Non parliamo poi di quelle tradizionali che vengono prodotte in fretta, senza collaudi. Da una parte non uccidono direttamente, ma la tragedia avviene quando non te ne accorgi e le tocchi e anche quando devi andare a disinnescarle. Mi resi conto che anche io avrei dovuto prendere una posizione, con una decisione forte.
Non potevo più rimandare e ingannarmi.

Tu eri parte di un sistema anche economico dai numeri impressionanti…
Sì, partecipavamo a grandi fiere delle armi, in cui tutti i peggiori nemici sul campo delle varie guerre se ne andavano a braccetto per conoscere come funzionava l’arma dell’altro. Quasi in amicizia. Tutti i maggiori produttori ed esportatori di armi si fanno conoscere dalle varie commissioni ministeriali che visitano gli stand, si fa il giro nelle ambasciate, poi ci sono gli incontri mondani dove ci si conosce ancora meglio e si capisce quali sono le persone “giuste” da contattare per vendere con profitto. Il resto viene lasciato da parte. Che all’interno di un carro armato ci siano due o tre ragazzi di vent’anni non importa a nessuno, come delle vittime di un proiettile di un cannone. Questa è la logica, la logica del prodotto e non del prodotto con conseguenze.
Alle conseguenze non ci deve pensare nessuno sennò sarebbe difficile trovare dei tecnici che lavorino in quel settore.



Cambiare non è stato facile né immediato.Che ricordi hai?
Ci sono stati momenti di disperazione in cui non riuscivamo a venire a capo di nulla. E quando nel momento più critico ti arriva una telefonata in cui ti chiedono 600mila mine antiuomo, che fai? Questa commessa equivarrebbe a sei mesi di lavoro che ti consentirebbero di fare ristrutturazioni, di avere del denaro in cassa, di pacificare la situazione aziendale con le banche. Che fai? Io dissi di no. Dovevo farlo. Certo, c’erano i miei dipendenti, ma sapevo che in qualche modo avrebbero trovato altro. Poi mio padre non era per nulla d’accordo, ma ha accettato perché la decisione ormai era stata presa. Non sarei mai tornato indietro.

La tua è stata una scelta prima di tutto personale. Ti sei sentito interpellato direttamente…
Sì, e in queste scelte ognuno è solo. In astratto si può contraddire qualsiasi teoria, uno è liberissimo di agire come crede, però bisogna essere pronti ad abbattere il proprio muro personale. Io ero un bonaccione dalle 17 in poi, ma durante il giorno producevo mine. Dovevo spezzare questa contraddizione perché già allora vivevo due vite. Ho deciso di viverne una sola. Sono arrivato così a essere uno sminatore.

Hai lavorato nei Balcani per quasi venti anni…
Dopo la guerra degli anni ’90, in Bosnia erano rimasti circa 15mila campi minati. Infestati di cluster bomb, di bombe a grappolo: un macello.
Quando siamo arrivati per bonificare, i cartelli dell’onu avvertivano che c’erano 4 milioni di mine, praticamente impossibili da rimuovere tutte. Dopo 8 anni, quando avevamo finito di sminare il 60% dei campi più grandi, ci siamo accorti che le mine disattivate erano circa 250mila, quindi molte di meno di quelle che ci si aspettava di trovare. A ottobre 2023 la Bosnia si è liberata almeno delle bombe a grappolo. Ci sono voluti 20 anni. Ecco la follia della guerra.

Oggi è più difficile testimoniare il proprio impegno per la pace. Siamo in un mondo molto più diviso e polarizzato. Abbiamo fatto passi indietro?
Io credo che si debba lasciar andare gli operatori di pace sul campo.
L’importante è cercare di fermare i conflitti. L’esercito degli operatori umanitari in tutto il mondo sta facendo miracoli ma c’è bisogno che i contendenti a un certo punto si fermino. Quando finisce una guerra, ci sono sempre due comunità che si odiano, un noi e un loro. L’operatore umanitario che cosa può fare? Costruire o ricostruire un acquedotto che serve agli uni e agli altri, aiutare gli uni e gli altri, tirare su dei tralicci elettrici, bonificare le strade che portano alle sorgenti d’acqua o alle scuole… Perciò è fondamentale non bloccare il bene che si sta facendo in questo momento, da parte della Croce Rossa, la Caritas, le Nazioni Unite. Ci sono tutte le possibilità per portare la pace, ma la pace non la devono fare i militari, ma persone che hanno lavorato sul campo, che sono in grado di continuare a farlo. Non buttiamo troppi dubbi sull’efficacia del lavoro per la pace. Alle Nazioni Unite, pur essendo un pachiderma burocratico, stanno facendo l’impossibile per non far morire almeno 50 milioni di persone nei campi profughi di tutto il mondo o nelle situazioni di crisi. C’è un esercito del bene pronto a intervenire, ci sono tanti piccoli interventi che non sono piccoli, perché sono il ripristino della vita civile. La gente non aspetta altro: uno ha piacere di vivere all’interno di una comunità che lo protegga, ma ha anche piacere di poter uscire di casa, di avere l’acqua, di poter scavare un pozzo.

È realmente possibile una riconversione del settore bellico?
Quando l’Italia ha aderito al trattato per la messa al bando delle mine antiuomo – ed era il terzo produttore al mondo – il governo fece una legge ad hoc per stanziare delle risorse finanziarie per aiutare le aziende produttrici nella riconversione.
Io avevo fatto dei progetti che poi non sono andati in porto a causa di tutta una serie di cose, burocrazia compresa, ma oggettivamente era molto difficile anche tecnicamente riconvertire una fabbrica specializzata nella produzione di mine, di cui l’80% è il know how, cioè la progettazione, la conoscenza, e il 20% sono le materie prime e quindi dar vita a qualcos’altro che non c’entrava nulla con l’attività precedente. Devo anche far presente che l’Italia dal 2001 stanzia un contributo per lo sminamento che ogni anno viene rinnovato e va direttamente alle campagne operative di sminamento in giro per il mondo. Quindi il compito è difficile, ma non impossibile.

Il passato oggi che peso ha nella tua vita?
C’è ed è abbastanza. Ricordo un incontro di tanti anni fa in una trasmissione televisiva a cui partecipava anche don Oreste Benzi. La conduttrice mi domandò se pensavo ai tanti morti causati dalle mie mine. Don Oreste prese la parola prima di me: «Chi ha sofferto, chi è morto ora prega, ora è nelle mani di Dio; certamente non vogliono vendetta, non condannano nessuno». Quelle parole mi diedero speranza.
Certo, pur con tutto il lavoro che io e i miei uomini abbiamo fatto, rimango sempre con questo peso sul cuore del non poter più aiutare chi deve essere aiutato. Dovessi fare una sintesi, direi che «per fare la guerra basta un’arma, per fare la pace occorre coraggio».

    

A cura della redazione
NPFOCUS
NP gennaio 2024

 

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