Effetti collaterali

Pubblicato il 20-05-2020

di Nello Scavo

In tutto il mondo profughi e minoranze scontano a caro prezzo la pandemia da Covid.

 

Non bastassero i contagiati, bisogna fare conti con i “desaparecidos” del Coronavirus. La pandemia è anche una sfida per i diritti umani. Alcuni Paesi, a cominciare dalla Cina, ne hanno approfittato per regolare i conti con la dissidenza. Altrove è una corsa contro il tempo per scongiurare lo scenario peggiore: l’epidemia tra i più poveri e fragili del pianeta, dal gigantesco campo profughi di Dadaab in Kenya agli insediamenti dei Rohingya tra Myanmar e Bangladesh, dalle isole greche alla rotta balcanica. In Europa la tentazione autocratica ha avuto effetti una volta impensabili. A Budapest il premier Viktor Orban ha chiesto e ottenuto i pieni poteri, che gli consentono di concentrare nelle sue mani quasi ogni ingranaggio di una democrazia appena maggiorenne. E cosa c’entri la lotta al Covid con la necessità di controllare l’informazione culturale e perfino quella sportiva, si fatica a comprenderlo.

 

La pandemia sarebbe però una buona occasione per comprendere che altrove se la passano peggio da sempre. L’ong Oxfam in una ricerca ha denunciato come nella maggior parte degli accampamenti per i profughi sparsi in tutto il mondo, le condizioni di vita sono l’esatto contrario di quanto occorrerebbe fare per bloccare il contagio: «In media in molti campi oltre 250 persone costrette a condividere una sola fonte d’acqua pulita, con meno di 3 metri e mezzo quadrati di spazio vitale a testa». Ancora peggio nei campi di prigionia in Libia o sulle isole greche, dove vivono ammassate oltre 40mila persone in spazi ristretti e in condizioni igieniche spaventose. Ancora peggio vanno le cose nel Cox’s Bazar, in Bangladesh, dove vivono 40mila profughi Rohingya per chilometro quadrato. Malnutrizione, colera, dissenteria e tifo sono già la quotidianità. Il Covid sarebbe il colpo di grazia, provocando focolai che si estenderebbero all’intera divisione di Chittagonga, nel Golfo del Bengala, dove vivono circa 30 milioni di persone.

 

Più vicino a noi, sull’isola di greca di Lesbo, la cittadella dei profughi a Moria era stata concepita per 3mila migranti e profughi. Ce ne sono 20mila: 1 bagno (sporco) ogni 160 persone, 1 doccia ogni 500, 1 fonte d’acqua ogni 325. Nonostante si tratti di una struttura finanziata dall’Unione europea, «praticamente non c’è sapone per lavarsi nemmeno le mani e 15 o 20 persone – ricorda Oxfam – sono costrette a vivere ammassate insieme in singoli container o in alloggi di fortuna». 

Attualmente sono oltre 70 milioni i fuggitivi nel mondo a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni di diritti umani. Di questi, «più di 20 milioni – ricorda Unhcr-Acnur – sono rifugiati», oltre l’80 per cento accolti da Paesi a basso o medio reddito, con «sistemi di assistenza medica, di approvvigionamento idrico e servizi igienico-sanitari meno efficienti».

 

Ad oggi oltre 100 Paesi stanno segnalando la trasmissione locale di Covid-19. Di questi, 34 ospitano popolazioni di rifugiati che superano le 20mila persone, e che attualmente non sono interessate dal virus. Poiché i rifugiati e gli sfollati interni spesso si trovano in luoghi sovraffollati o in cui la salute pubblica e gli altri servizi di base sono poveri e sovraccarichi, è stato consigliato a tutte le agenzie Onu «di mettere in atto piani e meccanismi di emergenza in collaborazione con governi e partner», si legge in una nota operativa.

Non è il caso della Cina, i cui successi nel contenimento del contagio stanno facendo trascurare uno dei peggiori effetti collaterali. Sharon Hom, direttore esecutivo di China Human Rights, ong con quartier generale a New York, afferma che l’accesso alle informazioni, insieme alle restrizioni sul contenuto e alla diffusione delle informazioni, rimangono gli strumenti chiave del controllo sociale nel Paese che per primo è stato colpito dal Coronavirus.

 

Un recente studio del gruppo canadese di ricerca informatica Citizen Lab, citato da al Jazeera, ha documentato come siano state intensificate le azioni repressive del governo di Xi Jinping. L’applicazione di messaggistica cinese WeChat e l’app di streaming video YY hanno bloccato alcune combinazioni di parole chiave che includono critiche al presidente relativamente alla gestione dell’emergenza Coronavirus.

 

Dall’inizio dell’epidemia China Human Rights ha monitorato una serie di casi in cui cittadini che hanno pubblicato sui social network opinioni critiche sulle “risposte inadeguate” delle autorità, sembrano del tutto scomparsi. Il caso più noto è quello di Chen Qiushi, avvocato cinese per i diritti civili che aveva sostenuto la protesta della popolazione di Hong Kong contro Pechino. Il 7 febbraio è stato portato via dalla sua abitazione per essere posto in quarantena. Il provvedimento era stato annunciato per una durata di 24 giorni. Ben oltre un mese dopo, dell’avvocato non si ha alcuna notizia. Così come pare svanito Fang Bin, giornalista inviso al regime, così come Li Zihua, ex giornalista della rete pubblica Cctv7, è scomparso il 26 febbraio quando un gruppo di uomini non identificati lo ha portato via dalla sua abitazione.

 

Vedi il focus Riflessioni in tempo di Covid 19

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