A colloquio con Dom Claudio Hummes/2

Pubblicato il 15-02-2012

di Redazione Sermig

Povertà, giovani, islam sono i tre argomenti della seconda parte dell’intervista a Dom Claudio realizzata durante il suo soggiorno all’Arsenale della Pace.

a cura della redazione
 

Nelle sue parole, Dom Claudio, colpisce la coincidenza tra il vivere il cristianesimo e la carità concreta. Ritiene che la preoccupazione di coniugare fede e carità sia presente anche nelle Chiese delle regioni più ricche del mondo?

Quando ci si incontra con i vescovi di altri Paesi, anche di quelli più sviluppati, è manifesta la preoccupazione che anche loro hanno per la povertà. La nostra fede in Gesù Cristo ci porta ad avere questa preoccupazione. Si vede, però, che è vissuta come lontana, distante e questo fa sì che sia più difficile integrarla nel quotidiano, nella pastorale, nella vita ecclesiale. Ma la preoccupazione esiste, ed è molto forte, nel Papa. Già Giovanni Paolo II - e ora anche Benedetto XVI - aveva grande attenzione per la situazione dell’Africa. L’Africa è un continente che vive una sofferenza incredibile, un’esclusione profonda, senza speranza per tanti.

La preoccupazione riguarda non soltanto le persone, ma anche le Nazioni che vivono senza speranza, senza futuro e non hanno la possibilità di partecipare alla “vita”, allo scambio, al commercio di beni tanto spirituali quanto materiali e culturali. La Chiesa è molto preoccupata per questo. Cosa si può fare? Come? Molte volte si cerca di stimolare la Chiesa locale, per esempio la Chiesa in Africa, la Chiesa in America Latina.
È normale che per un periodo ci sia più preoccupazione per l’Africa che per l’America Latina.

Quale è la situazione della Chiesa in America Latina?
L’America Latina in questo momento ha necessità di attenzione sia da parte della Chiesa centrale di Roma che delle Chiese dei Paesi sviluppati per non sentirsi abbandonata anche perché, poco a poco, comincia a regredire.
In particolare, considerando che tanti cattolici passano ad un’altra religione ci sorge una domanda: fino a quando potremo dire che il Brasile è un Paese cattolico? Fin quando potremo dire che l’America Latina è un continente cattolico? Se le cose continuano così, fra 20 anni non potremo più parlare di maggioranza cattolica. L’America Latina, il Brasile, hanno una vocazione cattolica molto forte. L’essere cattolici è la più grande grazia che hanno avuto dalla scoperta di questo continente, aldilà delle tante ingiustizie subite dalle colonizzazioni. Siamo stati fatti cattolici, siamo un continente cattolico, è la nostra vocazione fin dall’inizio. Perdere questa specificità sarebbe una perdita grande per la Chiesa; dobbiamo fare uno sforzo perché questo non capiti. Io sento che per il Papa questa è una preoccupazione sempre maggiore e credo che sarà lui a stimolare, ad ispirare, nuove forze in questa direzione.

I giovani un po’ di tutto il mondo oggi tendono a non essere più affascinati da nulla. Il Sermig ha nel cuore la sfida di capire cosa fare con i giovani. Quali preoccupazioni, quali sensazioni, che indirizzo ha la Chiesa di San Paolo, e del Brasile intero, rispetto ai giovani? 

I giovani sono stati il tema centrale dell’ultima Assemblea Generale dei Vescovi del Brasile. Ancora una volta si è riflettuto su tutti gli aspetti possibili di questa sfida. Non diciamo che i giovani sono un problema, ma una sfida. Per noi è veramente una sfida cercare di arrivare fino a loro. Io sono convinto che siamo ancora distanti e loro sono distanti da noi. Ma se loro sono distanti è perché noi non siamo stati capaci di dimostrare quanto e come Gesù Cristo è una buona notizia per loro. Tutto comincia qui, perché i giovani vogliono veramente avere qualcuno da seguire, qualcuno con cui parlare, con cui incontrarsi, con cui poter condividere la loro vita in totale fiducia e questo “qualcuno” è Gesù Cristo, una presenza che li stimola, che dona la gioia di vivere. Noi non siamo ancora riusciti a fare questo. Ci sono dei movimenti, in alcune parrocchie, che hanno portato i giovani ad incontrare Gesù Cristo, a fare un’esperienza personale di Lui. In questi casi le persone sono cambiate moltissimo. La persona che vive questo incontro, si incanta di Gesù Cristo, si lascia prendere, si fa invadere da Lui. Ricordo quello che il Papa Giovanni Palo II disse ai giovani durante il Giubileo del 2000 a Roma. Al primo incontro, ad un certo punto, chiese: “Che cosa siete venuti a cercare a Roma, che cosa?”. Poi si fermò e si corresse: “Eh no... non che cosa, ma Chi voi cercate? Voi cercate Qualcuno…. Voi siete venuti qui a cercare un incontro con Gesù Cristo, non per fare sentire una bella teoria, per fare del turismo religioso o avere un incontro con altri giovani… anche tutto questo fa parte dell’esperienza, però se voi siete venuti è perché volete incontrare Gesù Cristo come una persona con cui vi potete confrontare. Una persona da amare, di cui vi potete fidare, a cui potete consegnare la vostra vita e i vostri diari, le vostre aspirazioni e che sia un compagno di strada nella vita.” Questo, secondo me, è quello che anche noi dobbiamo fare con e per i giovani. Però loro sono tanti e noi siamo pochi. Prima dicevo che a San Paolo c’è un milione di giovani che non lavorano né studiano. A questi giovani noi non siamo ancora vicini.

Che percentuale di giovani c’è a San Paolo?
Non posso indicare la cifra esatta, ma penso che sia alta, poco meno della metà degli abitanti. Dobbiamo lavorare su un grande sforzo di avvicinamento ai giovani, sia come singoli che in gruppo. La grande maggioranza di loro non ha contatti con la Chiesa, ha pochi ideali, non ha la possibilità di avere qualcuno con cui dialogare. Soprattutto quelli delle periferie vivono senza lavoro, non sono scolarizzati, hanno poco da dire se non che non hanno un futuro! Allora spesso entrano nel mondo della droga e del crimine organizzato. Quando si sentono parlare del loro futuro i giovani coinvolti nel crimine organizzato, è veramente una tragedia. Loro, con molta semplicità, dicono che non hanno futuro, che sanno che tra poco saranno morti. Dicono: “Noi ora siamo qui, facciamo queste cose, ammazziamo, rubiamo, ma sappiamo che tra poco saremo morti e sarà finita.” Ricordo un ragazzino di 10 anni che diceva: “Anch’io tra poco sarò morto, ma finalmente riposerò”.

Quello che ci preoccupa è vedere il disamore per la vita, non solo nei giovani già caduti “nel crimine”, ma anche in chi sta bene. Anzi, chi ha le risorse per studiare e chi ha un lavoro è più disilluso degli altri.
Anche da noi è così. Per i giovani l’aspirazione più importante è avere abbastanza denaro per consumare. Il consumismo, il comprare tutto quello che il mercato offre. Fare molti viaggi e godersi la vita ogni giorno. Hanno paura del futuro, il passato non vale niente. Rimane solo il presente. Per questa gioventù il presente vuol dire oggi, avere tutte le soddisfazioni possibili oggi, velocemente. Il fine della loro vita è quello di avere tutto quello che possono, ma sono cose materiali, non ci sono grandi slanci spirituali o ideali nobili: il voler fare del bene alla gente, l’amore, la carità, la solidarietà, il rispetto. Le loro sono delle aspirazioni molto corte, materialistiche.

All’Arsenale della Speranza di San Paolo ogni giorno centinaia di uomini fanno la fila per un posto letto sicuro; poco più in là centinaia di giovani passano per andare alla vicina università. Sono come due mondi paralleli che non si incontrano, ma occuparsi dei giovani è altrettanto importante che accogliere le persone di strada.

Anche noi ci domandiamo: come arrivare a questo? Nelle scuole c’è la gioventù, gli adolescenti, i bambini, come possiamo arrivare alla scuola e lì fare una vera evangelizzazione? Troppe scuole si chiudono e non puoi entrare per parlare ai giovani, per fare un’evangelizzazione dove ci si sforzi di condurre la persona a fare esperienza di Dio. Per questo, anche se non è facile, dobbiamo incontrare i giovani in altre situazioni, ad esempio andando nelle famiglie. Ma anche questo è uno sforzo molto grande.

Il confronto con l’islam, qui in Europa molto forte, si sente anche in America Latina?
Il problema del rapporto tra le religioni si sente anche da noi. Le religioni dovrebbero essere una forza di pace, di giustizia, invece sono occasioni di violenza, di conflitto. Questo succede un po’ dappertutto. Anche il discorso del Papa a Ratisbona ci ha toccato. Sempre, però, si vede che l’importante è la verità. Si deve dire la verità, anche se è dura. Noi dobbiamo ascoltare la verità su di noi, gli altri la verità su di loro. È nella verità che possiamo trovarci, è la verità che ci rende aperti al cuore dell’altro.

A cura della redazione

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