L'impatto della moda

Pubblicato il 18-03-2022

di Elisa D’Adamo

Da anni la designer e attivista per l'ambiente inglese Vivienne Westwood ripete: «Scegli bene, compra meno e fa' che duri nel tempo!». Ecco, se solo riuscissimo ad abbracciare questa filosofia probabilmente il sistema del fast fashion non avrebbe messo in ginocchio piccole e medie realtà del settore, probabilmente non avrebbe attecchito il tarlo del “ma sì dai, lo compro tanto costa poco” e probabilmente non avremmo assistito ad eserciti di manodopera sottopagata allestiti per realizzare prodotti scadenti e spesso inquinanti. Qui il condizionale è d'obbligo e non vogliamo puntare il dito contro qualcuno o qualcosa in particolare, la responsabilità è trasversale, ma oggi è necessario aprire gli occhi sull'intero ciclo di produzione dei vestiti. Come riferisce la recente Conferenza sul clima di Glasgow, il suddetto ciclo è responsabile del 10% delle emissioni dei gas serra degli ultimi 10 anni. La COP26 si è interessata anche al settore produzione e consumi perché i numeri parlano chiaro: produrre un paio di jeans, per esempio, comporta l'emissione di 34 kg di gas serra e l'uso di quasi 10mila litri d'acqua. Abbiamo già parlato del Fashion Pact del 2019, un accordo sulla sostenibilità tra 62 aziende e oltre 200 brand, che impegna i partecipanti all'utilizzo di almeno un quarto delle materie prime ottenute da fonti sostenibili entro il 2025 ed un impatto zero di CO2 entro il 2050. Difficile capire se questi buoni propositi si siano già trasformati in atti concreti, ecco perché uno degli obiettivi della COP26 è delineare un sistema di monitoraggio dei Paesi che hanno sottoscritto l'Accordo di Parigi del 2015, che, ricordiamo, prevede la riduzione delle emissioni di almeno il 50% entro il 2030 ed il contenimento dell'innalzamento della temperatura globale ad un massimo di 1,5 gradi.


Elisa D'Adamo
NP dicembre 2021

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