Il suo nome era Paolo

Pubblicato il 19-03-2021

di Renzo Agasso

Lo chiamavano Pablito, ma il suo nome era – è – Paolo Rossi. Di secondo mestiere, calciatore; di primo, uomo perbene. È morto, e ci manca. Campione del mondo di calcio 1982, partendo dai polverosi campetti d’oratorio d’un tempo, dispensatore di sorrisi contagiosi e sinceri, ha mantenuto fino all’ultimo la faccia e il cuore puliti.

Come gli aveva domandato un giorno don Ajmo Petracchi, il prete che lo accolse ragazzino nella Cattolica Virtus di Firenze, in un tempo lontano.
«Caro Paolo, a volte la Divina Provvidenza mette gli uomini sulla stessa strada, per dare un senso a quello che fanno. E dovranno fare! Paolo, ricordati che tu hai una grande responsabilità…

La popolarità è un bene prezioso che va gestito. Adesso che sei diventato un simbolo per le nuove generazioni, per i ragazzi che provano a imitarti, per tutti coloro che sono in cerca della propria identità, adesso hai un ruolo davvero importante! Doveri da rispettare e non solo piacere. La vita ti sta dando molto, figliolo, ma bisogna ridare indietro qualcosa di significativo! Ti seguo come sempre e ogni giorno leggo sui giornali i tuoi successi, le tue vittorie, e ne sono fiero. Ma ti chiedo di rimanere sempre te stesso, sempre integro nelle tue virtù. Che sono tante. Sei un ragazzo perbene, ricorda sempre le tue origini sane. E ricorda, figliolo, che la vita ci pone spesso degli ostacoli da superare.

Ma tu devi sempre essere forte e proseguire a testa alta il tuo cammino.
Con i principi giusti. Io ci sarò, anche quando non mi vedrai. Ti abbraccio, tuo don Ajmo».

Un richiamo severo all’umiltà, per il campione del mondo. E Pablito è rimasto Paolo, fino alla fine, a una morte dolorosa discreta appartata, a un silenzio carico di lacrime amare trattenute dignitosamente. A un sommesso ritorno nei luoghi semplici della sua vita troppo breve.
La vita gli ha dato molto, e tanto lui ha restituito. Se regalare attimi di gioia, di orgoglio, di fierezza sono gesti d’amore, Paolo ne ha profusi a piene mani. Se portare sorriso, leggerezza, simpatia nel mondo inquinato e presuntuoso del pallone è un merito, Paolo l’ha avuto sempre, nei giorni belli come in quelli amari, osannato come “hombre del partido”, e insultato – ingiustamente – come corrotto del calcio scommesse.

Lo chiamavano Pablito, ma lui è rimasto Paolo dalle tante virtù. E lo rimarrà pure lassù, dove ha ritrovato Gaetano Scirea ed Enzo Bearzot, campioni del mondo, campioni della vita.

Renzo Agasso
NP gennaio 2021

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