Una sacra rappresentazione

Pubblicato il 15-08-2021

di Davide Bracco


(continua da Nuovo Progetto di marzo)


Il quadro riprende negli anni il suo posto nell’immaginario e nella riflessione nell’ambito in primis delle scienze umane per la sua modernità nel trattare un tema novecentesco quale quello della morte di Dio e del suo scandalo che ci tenta e confonde.
La scrittrice psicanalista Julia Kristeva in un saggio del 1986 (Sole nero) sottolinea la solitudine e l’isolamento di Cristo nel quadro dove «Holbein lascia il cadavere stranamente solo. Ed è forse questo isolamento – un fatto di composizione – che conferisce al quadro la maggior carica melanconica, più di quanto non facciano il disegno e il colorito […] questo realismo lancinante per la sua stessa parsimonia è accentuato al massimo dalla composizione e dalla posizione del quadro: solo un corpo allungato posto al di sopra degli spettatori e separato da essi. Separato da noi dal basamento, ma senza alcuna linea di fuga verso il cielo perché il soffitto della nicchia incombe basso, il Cristo di Holbein è un morto inaccessibile, lontano, ma senza alcun aldilà».

Ma Kristeva è anch’essa sconvolta dal mistero del quadro e del suo creatore che potrebbe anche volerci invitare a considerare «la tomba di Cristo come una tomba vivente, per partecipare alla morte raffigurata e ad includerla nella nostra vita così da renderla viva». L'effetto degli occhi e della bocca aperti di Cristo è stato descritto dal critico d'arte Michel Onfray dicendo che «lo spettatore vede Cristo che vede: egli può anche pensare cosa la morte abbia in serbo per lui, dal momento che Cristo fissa il paradiso, mentre la sua anima già si vi si trova. Nessuno però si è preso la briga di chiudere bocca e occhi al Cristo-uomo. O meglio Holbein vuole dirci che, anche nella morte, Cristo ci vede e ci parla».
A conclusione di una indagine mai tuttavia davvero conclusa e a testimonianza della forte capacità evocativa di questo dipinto anche papa Francesco nell’Enciclica del 2013 Lumen fidei, si riferisce a Holbein tramite la citazione del romanzo di Dostoevskij. Nella durezza e nel modo crudo di raffigurare la morte la fede viene rafforzata in relazione all’amore per l’uomo mostrato da Gesù Cristo.

Così al punto 16: «La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr Gv 19,37): "Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate" (Gv 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: "Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno". Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo».


Davide Bracco
NP aprile 2021

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