La speranza nell'abisso

Pubblicato il 21-11-2012

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Una donna anziana, giovane nei campi di sterminio, il suo dolore nascosto per 50 anni. Il riscatto passa dall’esempio e dalla forza di una testimonianza.

Il dolore spariglia le carte e rimette insieme i pezzi. Il dolore fa morire e rinascere. Elisa Springer (foto) è una donna nata tre volte. La prima a Vienna, nel 1918: figlia unica, attesa, desiderata, di una coppia di ebrei di origine ungherese. La seconda nel 1945 dopo la guerra: l’unica superstite della sua famiglia ai campi di sterminio di Auschwitz e Bergen Belsen. La terza negli anni ’90, quando per la prima volta riuscì a raccontare la sua tragedia. La aiutò il figlio Silvio, psichiatra, che in una mattina di primavera capì una volta per tutte la sofferenza nascosta della sua mamma.

Prima di quello sfogo, mai una parola, mai un accenno, addirittura il numero da prigioniera sul braccio coperto con un cerotto. Ma in un istante il muro del silenzio era caduto ed Elisa non si fermò più. Non la fermò nemmeno l’ennesimo strappo della vita: la morte improvvisa di Silvio, il figlio della speranza, per lei, vittima degli esperimenti del dottor Mengele.

Elisa cominciò a girare l’Italia per portare la sua testimonianza ai giovani. Ne incontrò migliaia nelle scuole, nelle parrocchie, nei luoghi di aggregazione, anche negli arsenali del Sermig. “Ad Auschwitz – disse una volta – ho lasciato la mia gioventù, i miei sogni, le mie speranze, il mio aspetto fisico ed anche i miei sentimenti umani, perché era proibito nutrire sentimenti umani. Ognuno di noi veniva sottoposto a torture inaudite, a cominciare dall’appello che poteva durare dodici ore sotto la neve, oppure sotto un impietoso sole cocente. Perché Auschwitz, Birkenau, Bergen-Belsen non erano campi di concentramento, erano campi di sterminio e quindi si faceva di tutto per farci morire.
Un giorno, durante un appello, soltanto per aver fatto il gesto di sorreggere una mia compagna nella fila a fianco che stava per svenire, l’ufficiale tedesco, facendo un gesto col dito, mi ha chiamata fuori della fila, si è assentato un po’ e poi è tornato con un ferro rovente, con il quale, davanti a tutti, come monito, mi ha fatto una bruciatura alla parte posteriore della coscia destra”.

Elisa non si limitava a dare voce alla sua tragedia. Lei raccontava per testimoniare un bene più grande, l’amore che può nascere solo dal perdono, dal rifiuto dell’odio e della vendetta. Perché, diceva ai ragazzi, “vince chi perde” e “solo il perdono guarisce”. “Tutti mi chiedono se io odio i tedeschi, – raccontava – ma io non odio nessuno, non ho mai odiato nessuno. L’odio non fa altro che creare altro odio che prosegue all’infinito. L’odio è un grande fiume che quando straripa trascina con se tutto ciò che incontra e porta soltanto disastro. Bisogna saper cambiare, bisogna cambiare l’odio in amore. Io che ho provato l’odio, che l’ho vissuto, ci sono riuscita. Solo con l’amore si può andare avanti: l’amore per Dio prima di tutto, l’amore per gli altri, l’amore per se stessi”.

Nelle parole di Elisa non c’era buonismo. Lo ha ripetuto fino alla fine, nel 2004, quando si è spenta all’età di 86 anni. “Bisogna saper perdonare, – diceva – ma perdonare non significa dimenticare”. L’ultimo messaggio è stato per i giovani, i suoi “occhi per guardare il mondo”, come diceva sempre. “Se la mia presenza nel cuore di chi comprende la pietà, servirà a far crescere comprensione e amore, anch’io allora, potrò pensare che nella mia vita tutto ciò che è stato assurdo e tremendo, in fondo è stato il riscatto per il sacrificio di tanti innocenti”.


Speciale – LACRIME CON LE BRACCIA APERTE 4 / 8

Il dolore subìto e il dolore accolto, il dolore condiviso e il dolore disperato, il dolore del corpo e il dolore dell’anima. L’esperienza dell’uomo di ieri e di quello di oggi. Giovani e anziani, poveri e ricchi, forti e deboli: tante risposte, la stessa ferita, in ogni angolo del mondo. Un viaggio dentro le pieghe e le contraddizioni del più grande tabù dell’umanità, una ricerca di senso che può incontrare la speranza.

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