Zero fahrenheit

Pubblicato il 22-09-2011

di Alessandro Moroni


Qual è il sempre più sottile margine tra la fiction e la realtà? E il cinema di qualità, in tutto questo, dove si colloca? La recente tendenza al documentarismo propagandistico…


...di Alessandro Moroni

 

…non si limita a fornire spunti di discussione e motivi di infinite polemiche ai talk show televisivi e ai forum di discussione telematica, ma sembra destinato a influenzare tutt’altro che marginalmente eventi politici fondamentali, quali l’elezione di un Presidente degli Stati Uniti.
Pensiamo a un film-documentario che tratta i drammatici avvenimenti del presente e non può non venirci in mente il profilo pingue e provocatorio di Michael Moore, che con Bowling a Columbine e il chiacchieratissimo Fahrenheit 9/11 ha saputo conquistarsi l’attenzione del mondo intero a un livello difficilmente ipotizzabile fino a pochi anni fa.

Ma chi è esattamente questo personaggio così rapidamente emerso dal più assoluto anonimato e che da un paio d’anni si è dimostrato in grado di togliere il sonno all’inquilino della Casa Bianca?

Già la sua prima fatica cinematografica (Roger and me, del 1989), avente per soggetto la chiusura repentina di una fabbrica nella sua città natale, lo qualifica come un nemico giurato della grande industria e dei loschi figuri in giacca e cravatta che la dirigono. E’ un lavoro sicuramente identificabile come un documentario, anche se di una natura molto particolare: sottilmente venato di ironia e surrealismo, rimane probabilmente la sua opera di miglior qualità. Segue un lungo silenzio, cinematograficamente parlando, fino all’uscita di Canadian Bacon nel 1995, l’unico film della sua carriera basato su fiction allo stato puro. In esso si ipotizza (siamo in piena epoca Clintoniana) che un Presidente degli Stati Uniti in difficoltà valuti seriamente una dichiarazione di guerra al Canada. Morale: 11 milioni di dollari di budget, 150.000 incassati, un flop clamoroso, non solo di pubblico ma anche di critica. Ragion per cui il Nostro pensa bene di ritornare alle origini, e due anni dopo realizza The Big One, un altro documentario, incentrato ancora sulle perverse politiche delle multinazionali, con la diabolica Nike in testa a tutte. Ma anche in questo caso il pubblico snobba, e gli addetti ai lavori esprimono in coro una stroncatura feroce e pressoché unanime, del tutto indipendentemente dai vari orientamenti di pensiero di ciascuno. Nel frattempo Moore si fa conoscere come cronista d’assalto per trasmissioni quali TV Nation e The Awful Truth (che tanti spunti avrebbero poi fornito alle nostrane Iene e Striscia). E poi, con l’avvento alla Casa Bianca del rampollo della famiglia Bush, abbiamo la consacrazione...

Non negherò che tanto Bowling a Columbine quanto Fahrenheit 9/11 contengano degli spunti interessanti: soprattutto il primo. Resta il fatto che anche un cinema “a tesi predeterminata”, quale quello di Moore sicuramente è, non dovrebbe proporre manipolazioni così disinvolte di fatti, discorsi, circostanze e giudizi espressi dai vari soggetti chiamati in causa.
E’ accertato che, soprattutto in Fahrenheit, le alterazioni consapevoli della realtà si contano a decine, sotto varie forme: taglia-e-cuci di affermazioni fatte dai vari personaggi in circostanze diverse e spesso avulse dal contesto citato (così da falsarne il pensiero, a volte radicalmente), omissioni essenziali e rispondenti a uno scopo preciso, spostamenti di date, alterazioni di sequenze temporali, pareri di terze parti presentate come verità conclamate, dati proposti in modo parziale o erroneo se non addirittura contro il parere esplicito delle fonti citate; insomma, tutto quanto può concorrere a una sostanziale mistificazione di fatti, idee e situazioni. Particolarmente grave è che questo avvenga in un film che della verità vorrebbe porsi come paladino.

Ma il punto non sarebbe nemmeno questo, perché il film ne uscirebbe fin troppo bene se i suoi limiti consistessero solo nel fatto che venga presentata come realtà indiscutibile ciò che in realtà è in buona parte fiction! Viceversa, il problema principale di Fahrenheit consiste proprio nell’essere un lavoro mediocre, cosa che salta abbastanza facilmente agli occhi di chi sia appena un po’ addentro alle logiche che regolano sceneggiatura e montaggio e sia magari dotato di memoria sufficientemente lunga per poter operare qualche confronto con film analoghi realizzati appena ieri, o al massimo ieri l’altro… Non possiamo dimenticare che il cinema a tesi, con finalità anche propagandistiche è sempre esistito, e non è certo frutto del genio di Moore. A memoria, citerei Tutti gli uomini del Presidente (del 1976) di Alan J. Pakula interpretato da Dustin Hoffman e Robert Redford. In quel caso il bersaglio era rappresentato dai brogli perpetrati da Nixon per ottenere il suo secondo mandato presidenziale. Bene, quel film è un ottimo esempio di come debba essere realizzato un film di denuncia: il perfetto bilanciamento tra l’esigenza di porre in risalto le verità del soggetto e le necessità contingenti di sceneggiatura dimostra come anche in questo settore si possano coniugare al meglio professionalità, talento cinematografico e impegno civile; e a chi volesse obiettare che il confronto è improponibile in quanto il film di Pakula non è un documentario, risponderei che, pur non essendolo, tratta gli avvenimenti reali con molto maggior rispetto di quanto non faccia Moore. Fahrenheit è sostanzialmente inficiato dal protagonismo didascalico del suo autore, che non sa esimersi dall’imporci il proprio commento nemmeno in quella che sarebbe la scena di maggior effetto drammatico del film, l’inquadratura di un Bush attonito che apprende della strage delle Torri Gemelle: avremmo un ottimo effetto, se non fosse completamente rovinato dalla voce fuori campo.

Varrà quindi la pena di ribadire quanto pensano in molti, tra gli addetti ai lavori in ambito cinematografico, ma che pochi, dato il peso specifico recentemente acquisito dal personaggio, hanno il coraggio di affermare: Michael Moore è sostanzialmente un autore cinematografico mediocre, che deve la propria fama quasi solo all’abilità con cui ha saputo cavalcare la tigre di una situazione politica di estrema drammaticità. Non altrimenti riuscirei a spiegare il conferimento di prestigiosi riconoscimenti internazionali (spudoratamente legati al rancore che gli intellettuali di molti Paesi, Francia in testa, nutrono nei confronti degli Stati Uniti e della politica da essi perpetrata), che suonano come uno scandalo più grave di qualsiasi statuetta hollywoodiana conferita ai polpettoni di tutte le epoche.

Se mi perdonate il gioco di parole, concluderei dicendo che Moore ha trovato l’America il giorno in cui, con una votazione dall’esito discutibile, Bush junior ha conquistato la Casa Bianca; e, per una volta, ritengo che potrei unirmi al gruppo dei malevoli convinti che, per quanto concerne l’elezione che si sta celebrando proprio mentre questa edizione di Nuovo Progetto va in stampa, faccia segretamente il tifo per lui…

 

 

 

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