Perdonare si può

Pubblicato il 13-08-2023

di Matteo Spicuglia

Il perdono è l’espressione più alta della forza del bene. Cammino complesso che procede a velocità differenti: a volte scelta della ragione, altre volte passaggio illuminato dalla fede. Per Gemma Calabresi Milite è stato così. La sua è una storia di un dolore privato, diventato pubblico. Lei, moglie del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 da Lotta Continua. Rimasta vedova poco più che ventenne, con due bambini piccoli e uno che doveva ancora nascere. Dopo più di 50 anni, la condivisione umanissima della sua esperienza, la strada del perdono come terreno di incontro, aperta nel cuore già il giorno dell’omicidio.

Che cosa avvenne?
In quelle ore, suonarono alla porta tutti: un amico di mio papà, poi il questore, i colleghi di Luigi. Tutti tergiversavano: chi diceva che Luigi era stato ferito a una spalla, chi parlava di un’operazione in corso, chi mi consigliava di aspettare. A un certo punto arrivò il mio parroco, don Sandro. «Dimmi la verità!», gli disse.
Lui con il solo movimento delle labbra, senza emettere alcun suono. «È morto». Io mi accasciai sul divano con un dolore lacerante, una sensazione di vuoto totale, di smarrimento come se più niente avesse significato intorno a me, nella vita. Eppure avvenne qualcosa di sconvolgente

Cosa?
Mentre ero lì su quel divano insieme a don Sandro che cercava di starmi vicino, all’improvviso sentii fisicamente una incredibile pace interiore. Una cosa assurda, fuori contesto. Tuttavia, quella sensazione di pace il mio corpo l’aveva registrata. Sentivo che non ero sola, che ero come in un altrove.
Una sensazione che mi porto dietro da quasi 51 anni. Ecco, io sono convinta di essere stata visitata da Dio.
C’era qualcuno che mi indicava la strada. Quella mattina, ho ricevuto da Dio il dono della fede che non toglie il dolore, ma lo riempie di significato. Per me questo è stato un segno.

Ce n‘è un altro che oggi colpisce. Fu la scelta della frase da accostare al necrologio di suo marito… Me lo propose mia mamma. Era la frase di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Io lo accettai perché sentivo che era il momento giusto di contrastare tutto quell'odio, quella violenza con parole d'amore.
Per anni non ci pensai più. Ma un giorno, entrando in chiesa mi dissi: «Gemma, quel necrologio l'hai scritto, l'hai firmato, è giunto il momento di farlo tuo». Ci pregai sopra e colsi una sfumatura nuova. Gesù in quel momento non perdonò direttamente i suoi assassini. Perché? Io mi sono data una spiegazione. Gesù era sì figlio di Dio, ma in quel momento di dolore era uomo e si rendeva conto quanto fosse difficile, quasi impossibile per noi uomini perdonare. Il Padre può farlo al nostro posto, lasciandoci tutto il tempo che serve per percorrere un cammino. Questa consapevolezza mi ha liberata. Mi sono detta: «Dio ha già perdonato per conto mio. Lo farò anche io, ma con tutto il tempo che servirà».

Per lei sono stati fondamentali alcuni incontri. A cominciare dai bambini della scuola dove insegnava religione…
Proprio così. Subito dopo l’omicidio di mio marito, toccai il punto più basso: tristezza, pianto, rabbia, desiderio di vendetta. Se avessi incontrato gli assassini, avrei sparato. Mi vergognavo di questi pensieri, anche perché quando ti svegli con quest’odio addosso hai già perso la giornata che ti è stata donata. Il confronto con i bambini fu spiazzante. Una volta, uno di loro mi chiese: «Maestra, ma perché quando uno muore se ne parla sempre bene? Muoiono solo quelli bravi?». Accolsi quella domanda, spiegando che era giusto così perché di una persona che non c’è più bisogna ricordare il buono. E aggiunsi che Dio nella sua infinita misericordia ci avrebbe giudicati per le cose buone che abbiamo fatto e non per gli errori commessi. Uscita dalla classe, quella risposta continuava a risuonare dentro.
È come se l’avessi data a me stessa. Improvvisamente pensai agli assassini di mio marito e pensai che la loro vita non poteva essere ridotta solo a quel gesto, al male compiuto. Magari erano buoni padri, buoni amici, camminavano come me tra gioie e dolori.
Mi dissi con chiarezza che non potevo avere il diritto di relegarli per sempre all’atto peggiore che avevano commesso. In quel momento è come se avessi restituito umanità a ognuno di loro, riconoscendo le sfaccettature, vedendoli come persone. Da lì, il mio cammino di perdono non si è più voltato indietro.

Si può perdonare senza la fede?
Per prima cosa penso che sia possibile perdonare. È possibile amare ancora la vita dopo un dolore lacerante!
È possibile credere ancora negli altri anche se sei stata tradita!
È possibile cambiare opinione sulle persone che vedevi come tutto il male del mondo! Soprattutto, è possibile essere ancora felici. Sono dell’idea che il perdono sia un sentimento che riguarda tutti, non è appannaggio delle religioni, riguarda credenti e non. Secondo me si può perdonare con la propria umanità, ma bisogna volerlo, bisogna mettersi in cammino, senza scoraggiarsi. Mi sono accorta che Dio manda segni a tutti, non solo a quelli che credono.
Bisogna saperli vedere.

Quando lo ha capito?
In carcere, a Padova, incontrando un gruppo di ergastolani. Ascoltai la loro esperienza e chiesi di parlare con loro. Quasi tutti mi raccontarono che nel momento più basso di disperazione, di senso di colpa, di voglia di farla finita, avevano sentito improvvisamente un’enorme pace interiore, una grande forza. Alcuni l’avevano letta come la presenza di Dio. Rimasi sconvolta perché era la stessa descrizione di quello che avevo sentito sul divano la mattina dell’omicidio di Luigi. Io fino a quel momento avevo pensato che Dio fosse venuto da me, perché ero la vittima e invece non era così. Dio va da tutte le persone che soffrono, quindi va da tutti, credenti e non. Quegli uomini dopo quella esperienza avevano parlato con il cappellano del carcere e avevano cominciato a fare un cammino di fede per prepararsi a chiedere perdono.
Non solo, avevano cominciato a pregare incessantemente per le famiglie alle quali avevano tolto il loro caro.
Io ci ho visto come un ponte che mi riguardava. Loro camminavano da una parte per chiedere perdono e io mi vedevo dall’altra parte insieme alle vittime per darlo questo perdono.
Mi sono resa conto, che ci si può incontrare a metà strada per abbracciarsi e perdonarsi.

Qual è la cosa più importante che ha imparato dalla sua esperienza?
L’insegnamento principale è che bisogna vedere una persona in toto, conoscere la sua storia, la sua sofferenza.
Ognuno di noi ha dei sentimenti, delle difficoltà. Ma ognuno può camminare e migliorare.
Quando noi riceviamo un torto e inchiodiamo i responsabili a quel torto, rimaniamo prigionieri. Solo se sei pronto a considerare anche la fragilità dell’altro, puoi cominciare un cammino di perdono e vedere davanti a te non un nemico, ma una persona.
 

Matteo Spicuglia
FOCUS
NP maggio 2023

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