Nella tana del coniglio

Pubblicato il 17-03-2024

di Matteo Spicuglia

La fame d’amore all’inizio non si vede, la si può solo intuire. Diventa evidente quando è troppo tardi, quando senza accorgersene ci si ritrova ormai dentro “la tana del coniglio”. È l’immagine usata nella storia di Alice nel Paese delle meraviglie, efficace per descrivere il vortice dei disturbi alimentari: in Italia tre milioni di persone coinvolte, quasi 4mila vittime, la seconda causa di morte dei giovani. Al tema Francesca Fialdini ha dedicato un programma Fame d’amore e un libro Nella tana del coniglio.

Tante storie, ma lo stesso disagio…
Ogni persona racconta un particolare aspetto. Penso a Marta, una ragazza di buona famiglia, colta, intelligente, caduta nella tana. Oppure ad Anna che ha 42 anni e soffre di bulimia. Non si era accorta di arrivare a pesare 120 kg e con la vorace acquisizione di cibo voleva compensare le sue fragilità. Quando una persona diventa obesa è come se mettesse una barriera verso le altre persone, soprattutto verso quelle che ci possono procurare dolore. Anna ha dovuto fare luce sul suo passato. Sin da ragazza ha dovuto portare pesi enormi nella gestione dei suoi fratelli. Dietro tutte queste storie ci sono ferite profonde che hanno lasciato segni indelebili.

Quali sono le cause?
Sono diverse. Sicuramente entrano in gioco aspetti personali, perché non tutti reagiamo allo stesso modo agli avvenimenti che viviamo. C’è poi una componente genetica, ma conta anche il contesto. Con un paradosso: nelle fasi di crescita economica si assiste a un aumento dei disturbi soprattutto nei giovani di famiglie della buona società. Ci sono degli studi a riguardo sulla realtà di giovani che rischiano di essere trascurati da genitori impegnatissimi. Poi ci sono storie estreme. Mi viene in mente quella di Lucia.

Cose le è successo?
Fu abusata dal patrigno quando aveva 8 anni: nel suo inconscio pensava che siccome il patrigno faceva con lei le stesse cose che faceva con la mamma, ciò significava che le voleva bene. A dieci anni capisce che forse non è così, ma la maestra che scopre la verità le dice però di non dire niente per non sfasciare la famiglia. Dopo alcuni anni, Lucia parla con la mamma, ma lei non le crede. È un dolore enorme: Lucia comincia a stare male e quando la mamma alla fine le crede e decide di denunciare, crolla e comincia e negare il proprio corpo e la propria femminilità perché si sentiva in colpa e responsabile della fine dell’equilibrio della sua famiglia. È stata durissima, Lucia ha tentato più volte il suicidio, ma ora ne è fuori.

I disturbi alimentari non riguardano solo ragazze…
Assolutamente no. Ci sono sempre più casi tra i ragazzi e anche tra i bambini. Penso a Marco, 23 anni, famiglia normale e benestante. Per lui i problemi iniziano a scuola: i ragazzi lo denigrano, le ragazze lo accettano a patto che accetti provocazioni e violenze. Lui capisce di essere omosessuale ritenendosi sbagliato e inadeguato. Si rifugia in un mondo virtuale e comincia a chattare con sconosciuti che volevano sapere tutto di lui. Gli chiedevano il peso, le taglie e lo spingevano a dimagrire. Lui è entrato così nel problema.

Di chi è la responsabilità?
Credo che noi adulti dobbiamo guardarci bene dentro perché demonizziamo troppo i giovani, non li capiamo e li vogliamo a nostra immagine. Dovremmo metterli davvero al centro di tutto, della politica, dell’istruzione, della società. Ci lamentiamo della crisi demografica, ma come si può fare figli in un contesto che non offre sogni e desiderio. Rischiamo che l’unico modo per farsi sentire sia la violenza su sé stessi e gli altri. I disturbi alimentari hanno a che fare con questo. Quando parliamo di responsabilità della società dobbiamo renderci conto che non stiamo parlando di realtà anonime e estranee, stiamo parlando di noi.

Cosa dovremmo fare?
Tocca anche a noi renderci conto di chi ci circonda: perché essere troppo magri o troppo grassi è facilmente riconoscibile. La magrezza come occasione per sparire o l’obesità come occasione per nascondersi. La nostra responsabilità è vera. Penso a una storia vera. Quando è uscita dall’ospedale, Giada è stata apostrofata dalla mamma perché aveva preso troppi chili in più. Ma lei era andata in ospedale proprio per guarire dall’anoressia! È incredibile! Le nostre parole pesano, non sono mai leggere se nascondono disapprovazione. Quando investiamo gli altri dei nostri desideri e delle nostre fissazioni rischiamo di renderli schiavi e soprattutto di soffocarli.

È il risultato anche di modelli troppo performanti? Non è facile confrontarsi con il giudizio degli altri…
Certo, noi adulti nell’amore abbiamo fallito e non vogliamo metterci in discussione su questo. Se in questo tempo i giovani si ammalano di più è perché la nostra società vuole ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Ci vogliono più competitivi, vincenti. E sui social questo modello funziona, ci fa credere che l’immagine sia tutto. I nostri ragazzi rischiano una dissociazione: i loro processi cognitivi sono caratterizzati da una incapacità di distinguere il reale e il virtuale. Forse la loro soddisfazione starà nel vivere nel virtuale. Ma non è questa la strada. La nostra umanità passa dal riconoscimento della nostra fragilità. Solo dalle nostre ferite può entrare un po’ di luce.

Bisogna andare oltre l’immagine, quindi…
L’immagine purtroppo rimane decisiva perché tramite l’immagine siamo manipolabili. Dobbiamo riconoscerlo. I ragazzi che stanno costruendo la loro identità sono soggetti indifesi di fronte a pubblicità che puntano tutto sull’efficienza fisica. Perché non aiutiamo i nostri figli ad accettarsi così come sono, a volersi bene? Il rischio è cadere nella tana del coniglio.

In Fame d’amore hai portato questi temi al grande pubblico. È questa la tv che ti sta a cuore?
Secondo me chi fa un programma televisivo serio deve correre il rischio di dividere. Un programma come Fame d’amore che svela situazioni dolorose di disagio rischia di scoperchiare delle situazioni relazionali complesse che possono creare polemiche e conflitto. Del resto, che ce ne facciamo di una comunicazione che ci tranquillizza sempre, che non affronta i problemi ed è superficiale? Io credo che serva una comunicazione capace di affrontare la realtà e indicare vie di uscita. Dobbiamo offrire uno sguardo attento e responsabile.

Anche perché esiste una speranza…
Certo, io dico sempre di non credere ai profeti di sventura. Si può uscire da queste situazioni. Il dolore psichico si può affrontare anche quando apparentemente non c’è soluzione. Non è vero che si è schiavi per sempre dei disturbi alimentari. Bisogna però accendere la luce del desiderio per tornare a vivere, a sognare, a conoscere. La vita può riprendere il suo corso. Me lo ricorda Alberto che ha sofferto di disturbi alimentari, è guarito e oggi è un medico che aiuta tanti ragazzi e ragazze.


Matteo Spicuglia
NPFOCUS
NP febbraio 2024

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