L'anno zero

Pubblicato il 29-12-2021

di Claudio Monge

«Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in fin dei conti comincia il Ventunesimo Secolo», scrive Paul Auster all'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001. Auster è una delle tante voci che hanno contribuito a costruire l'idea che quel giorno costituisca un punto di non ritorno della storia e a far sì che l'attacco alle Torri Gemelle sia considerato una sorta di spartiacque.

A distanza di vent'anni, siamo sempre più convinti che si trattasse di un auspicio, mai davvero diventato una effettiva realtà. Certo, l'impatto, soprattutto mediatico, di quella tragedia in diretta, portò l'opinione pubblica a porsi delle domande inedite su stili di vita, rapporti interpersonali, gestione del multiculturalismo, che nel corso del ventennio diventerà piuttosto esigenza, per la verità ancora poco implementata, di "inter-culturalismo". Sì, perché un conto è constatare, all'interno delle società occidentali moderne, la presenza simultanea di una pluralità di gruppi differenti che fungono da base per l'identificazione culturale, altra cosa, è sviluppare una progettualità che traduca l'impegno comune che ha come fine l'incontro attivo tra soggetti portatori di culture differenti, aperti al dialogo, disposti a cambiare e a farsi cambiare nell'incontro.

Lo smacco che il gigante americano subì l'11 settembre 2001, lui che si credeva fino ad allora apparentemente inattaccabile e invincibile in casa sua (una "presunzione d'intoccabilità" condivisa un po' da tutto l'Occidente), portò però ad una reazione impulsiva e scomposta, sintetizzabile nella scelta del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, di inquadrare l'attacco come un «atto di guerra». Non pochi osservatori compresero, fin da subito, che questa scelta dell'amministrazione Bush, e con lei di buona parte dei media mondiali, era un tentativo di negare la realtà, di distogliere l'opinione pubblica da tutte le domande che avrebbe dovuto farsi.
Questa riflessione, prima di tutto in termini di autocritica strategico-militare (quanto al colossale fallimento dello spionaggio e del controspionaggio americano e su ciò che era ed è indispensabile per un sistema sensato di difesa militare), avrebbe poi dovuto portare ad un ripensamento radicale della politica americana e Occidentale in Medio Oriente! Quanto vediamo nel ventesimo anniversario dell'11 settembre, con la catastrofica uscita di scena dall'Afghanistan, scelto con l'Iraq come obiettivo della contro-risposta occidentale ad un atto terroristico caricaturalmente definito come un attacco dell'Oriente e, addirittura, dell'islam all'Occidente, sembra provare il contrario: gli errori si ripetono e vent'anni rischiano di essere passati invano. Lasciamo agli esperti il compito di capire se a essere in pericolo siano ormai i pilastri morali stessi su cui si regge una democrazia liberale.

Ma riflettere sugli errori del passato continua ad essere indispensabile se si vogliono comprendere le cause remote di ciò che sta accadendo oggi. Noi ci limitiamo a constatare che nel 2001 è definitivamente mutato il linguaggio che esprime la percezione dell'altro, con quella necessità irresistibile di stigmatizzarlo come radicalmente diverso e potenzialmente pericoloso, complice di un universo genericamente definito come "islamico" e di per se stesso divenuto ricettacolo di tutte le minacce possibili alla nostra identità e, in ultimo, alla nostra libertà! Come ricorda Maham, di origini pakistane ma cittadina italiana (essendo nata a Roma), diciottenne ai tempi dell'attentato alle Torri Gemelle: «È allora che cominciò questa retorica del "noi" e del "voi". All'inizio non capivo se io ero "noi" o "voi", essendo io italiana, ma anche musulmana».
Basterebbe ritornare a quel Ground Zero e scorrere con attenzione quella interminabile lista di nomi delle quasi 3mila vittime dell'11 settembre, incisi sulle grandi placche di bronzo ai bordi delle piscine che hanno rimpiazzato i crateri delle torri che non sono più. È una lista che racconta di un'America multi-culturale e multi-religiosa: vi spiccano decine di nomi ebraici e forse centinaia di nomi islamici. Sono tutti accomunati dalla definizione "americans", invito implicito ad evitare strumentali semplificazioni, ascrivendo vittime e carnefici a mondi così radicalmente distinti e in eterno conflitto.


Claudio Monge
NP ottobre 2021

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