Il popolo dei soli
Pubblicato il 18-03-2018
di Flaminia Morandi - “Cella continuata dulcescit”, stare a lungo nella cella addolcisce, diceva Tommaso da Kempis. Forse si potrebbe azzardare a tradurre, forzando un po’ il latino, ma non il senso monastico: più si sta nella cella, più la solitudine diventa dolce.
La solitudine oggi per noi sembra invece essere diventata una patologia che ha bisogno di cure al punto che in Inghilterra hanno istituto un ministero della solitudine per assistere i nove milioni di persone (di cui due milioni oltre i settant’anni) che stanno anche intere settimane senza mai avere una relazione con qualcuno. Ma in questo popolo di soli ci sono anche ragazzi che hanno relazioni solo attraverso uno schermo, in una sorta di epidemia dilagante di autismo affettivo e/o comunicativo reale. Lasciamo perdere perché si è arrivati fin qui. Facciamoci invece l’unica domanda che può aiutare a mettere a frutto la vita per diventare più umani: Cosa significa? Cosa significa per me che sono solo, che non ho relazioni, me vecchio che vengo scartato, me giovane che mi sento isolato, me donna o uomo in esilio in un mondo che mi spaventa? Dio ci parla anche attraverso la storia e la sociologia del presente. Qui, ora. C’è questa situazione: cosa mi sta dicendo? Che come ogni cosa che non mi piace ma che mi capita non la devo fuggire né rifiutare, ma accogliere.
È una lettera con dentro un messaggio per me. Tutto nella vita è parabola, tutto significa l’infinita complessità dei rapporti delle creature con il loro Creatore. Non c’è niente sulla terra che non sia la traduzione concreta o deformata del senso che ha in Cielo, dicevano i santi Padri. La solitudine e l’isolamento cattivo dei nostri tempi, se lo accogliamo, diventa la nostra occasione. La cella, diceva Antonio, insegna a stare con se stessi, è la “fornace ardente di Babilonia” dove si viene provati col fuoco: all’inizio è il luogo del tormento, del faccia a faccia duro in cui ci si conosce per quello che siamo, con i nostri limiti, debolezze e inferni fino a toccare il fondo. Ma cella ha la stessa radice di “coelum”. Lì, quando l’essere soli sembra diventare insopportabile, Qualcuno ci sta aspettando. Uno che oggi usa l’espediente della solitudine per mendicare la nostra attenzione. Uno che spera di essere finalmente guardato e chissà, finalmente amato: lui solo da me solo. C’è il Dio segreto, il mio Dio segreto, che mi chiede di riempire di Lui la mia solitudine, di sentirmi figlio piccolo di un Padre che non mi abbandona neanche da vecchio, fratello e sorella di tutti i soli, gli abbandonati, gli esiliati, gli scartati che nelle loro solitudini attraverso di lui sono in comunione intima e commovente con me. Allora il povero spazio in cui vivo diventa la cella della mia lode, della mia eucarestia, della mia occasione di amare e di essere amato. Mai più solo.
Flaminia Morandi
MINIMA
Rubrica di NUOVO PROGETTO