Fede e memoria

Pubblicato il 05-05-2019

di Flaminia Morandi

Flaminia Morandi - MINIMAdi Flaminia Morandi - C’è chi ripete incessantemente fra sé la preghiera di Gesù, chi camminando o lavorando recita il rosario, chi si porta dentro lungo la giornata un versetto del Vangelo, chi impara i salmi a memoria. Per chi cerca di vivere la fede la memoria è tutto, è vivere ogni istante della vita quotidiana attaccato a Dio: perché basta un solo istante per perdersi in grovigli di pensieri lontani da lui e comportarsi di conseguenza.

Ce lo ricordano i nostri fratelli ebrei, come racconta Ernest Gugenheim in un prezioso librino edito da Giuntina, L’ebraismo nella vita quotidiana. Solo qualche affascinante assaggio. Il filo azzurro dello scialle di preghiera (Nm 15, 37-41) evoca il mare, il mare il cielo, il cielo il trono divino; i quattro fili bianchi sono attorcigliati 39 volte, il valore numerico di Yhwh Echad, il Signore è uno. La cinghia della tefillà, l’astuccio di cuoio che si fissa sulla fronte e sul braccio nella preghiera, si arrotola sul dito medio come un anello matrimoniale (Osea 2, 21-22). Uscendo e entrando in casa, la mano passata sulla mezuzà, un astuccio sullo stipite destro della porta, fa ricordare le parole dello Shemà, Ascolta Israele… queste parole…ti stiano fisse nel cuore… le insegnerai ai tuoi figli, quando riposi in casa… (Dt 6, 4-9 e 11, 13-21), scritte nel piccolo rotolo di pergamena racchiuso al suo interno. Non si prega tanto per ottenere (anche se la preghiera è come “il forcone” che rivolta il fieno, ribalta “le disposizioni di Dio” dal rigore alla misericordia): la preghiera ideale è quella di Mosè all’ingresso della Terra Santa, mai esaudita, perché si prega per ricordare e diventare sempre più sensibili alla presenza di Dio.

Se lo studio della Torà, come diceva Maimonide, è un obbligo per chi è ricco o povero, sano o malato, giovane o vecchio fino al giorno della sua morte, è perché le parole sacre “non si allontanino dal tuo cuore né di giorno né di notte”. Se il sabato è dedicato al riposo è per “osservare e ricordare”, per espandere l’“anima supplementare”, rinascere spiritualmente. Se lo shofar si suona ogni mattino durante i 40 giorni che preparano allo Yom Kippur, è per scuotere dall’“indifferenza e torpore”. Il ricordo di Dio è persino inciso nella carne con la circoncisione, simbolo esterno della circoncisione più profonda del cuore.

Ogni gesto quotidiano, per quanto umile, viene inzuppato di spiritualità nella speranza di non cadere mai nella routine, di non credere mai che il rito esteriore basti, perché l’uomo è un “camminatore” e la sua vita un eterno “andare oltre”. Tutte le mitzvoth (i precetti) servono a diventare consapevoli di vivere una dimensione sacra, scriveva Abraham Heschel. Esse ci ricordano che siamo servitori e non padroni dell’universo, ricordano che l’uomo non vive in un deserto spirituale ma che in ogni suo atto avviene l’incontro tra l’umano e il sacro.

Flaminia Morandi
MINIMA
Rubrica di NUOVO PROGETTO

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