Con le porte aperte

Pubblicato il 20-04-2020

di Francesca Fabi

Anche in questo tempo, il Sermig sceglie la speranza.

 

Le accoglienze degli arsenali nacquero da un dito puntato. “Ehi, stanotte tu dove dormi?”. A parlare era un giovane, uno dei tanti invisibili che viveva nelle contraddizioni degli anni ’80, ma soprattutto nel via vai di una stazione. Un dito puntato, la provocazione per mettersi in gioco, inventarsi carità nuove, confermare la scelta di vivere con le porte aperte. Quello spirito non se ne è più andato. Oggi, in tempo di quarantena, quel giovane aggiungerebbe una sfumatura alla sua domanda. “Ehi, va bene restare a casa. Ma se una casa non ce l’ho?”. Per gli ospiti delle accoglienze è la realtà, la pura e semplice realtà.

 

Gli Arsenali del Sermig tuttavia hanno anticipato la risposta. Il ritmo delle giornate rallentato, misure di sicurezza stringenti arrivate anche qui, ma non alle porte. Le accoglienze notturne si sono estese: il pasto caldo della sera, un letto pulito, volti amici che ti accolgono. Gli stessi spazi che sono diventati casa anche durante il giorno. Succede a Torino, all’Arsenale della Pace: un mare di umanità di circa 200 persone che ogni giorno anche in tempo di emergenza vengono accolte, curate, sostenute. Uomini, donne, bambini di culture e religioni diverse. Ogni sera ognuno prega per le difficoltà di questo momento e le differenze diventano in modo naturale una ricchezza per tutti. Poi le visite mediche, la distribuzione della spesa alle famiglie del quartiere, le videochiamate con i ragazzi di Felicizia perché certi legami possono diventare ancora più forti nonostante la distanza. Il tutto è possibile grazie al contributo dei volontari. Molti sono dovuti restare a casa per motivi di sicurezza, ma tanti altri si sono aggiunti. C’è chi lavorava in fabbrica, chi vive solo, chi non ha impegni. La stessa frase: “Se volete, vengo ad aiutarvi”.

La vita è cambiata anche all’Arsenale dell’Armonia, di Pecetto Torinese, che ospita bambini ospedalizzati con le loro famiglie. Una categoria particolarmente a rischio in queste settimane. Per loro, la fraternità sta animando momenti di gioco, di aggregazione, ma anche lezioni e scuola a distanza. In attesa che tutto passi.

Così a San Paolo del Brasile. Anche l’Arsenale della Speranza è un luogo che parla e che in modi diversi rivive pagine del suo passato. Struttura di quarantena per milioni di migranti europei e asiatici tra Otto e Novecento. Oggi la casa di quarantena più grande del mondo ai tempi del coronavirus. Oltre mille ospiti accolti non solo per la notte, ma 24 ore su 24. Anche qui, è una lotta contro il tempo, in un Paese molto più indietro dell’Europa in termini di consapevolezza dei rischi.

Da una parte le misure stringenti decise dai governatori locali, dall’altra la linea del presidente Jair Bolsonaro che con aria quasi strafottente continua a liquidare la questione come una semplice influenza. L’Arsenale tuttavia ha scelto come sempre la dignità e la sicurezza delle persone. E la prudenza è diventata la regola di queste giornate: misure di distanza tra gli ospiti, la corsa alla produzione anche casalinga di mascherine, la creazione di soluzioni per ombreggiare i viali della casa per offrire spazi protetti durante la giornata.

Delicatezze che si esprimono anche in Giordania all’Arsenale dell’Incontro. Il Paese mediorientale per fortuna registra pochi casi di contagio, ma l’attenzione è massima. Il governo ha deciso in via precauzionale la chiusura delle scuole, compresa quella gestita dal Sermig. Ma anche qui le distanze non esistono. Insegnanti ed educatori stanno facendo di tutto per mantenere i contatti da remoto con i bambini disabili e le loro famiglie.

La vita degli Arsenali dunque non si ferma, forse palpita ancora più forte. Perché al di là delle emozioni di tutti, dell’invito a stare a casa, delle note che risuonano dai balconi, in luoghi così i dolori del mondo risuonano ancora più forte. Sono gli amici che ti confidano una sofferenza, una telefonata che dà voce al dolore di una perdita. Sono richieste di aiuto che ti fanno conoscere lo spaccato di genitori che non hanno soldi per portare cibo a casa. Sono volti che anche senza parole ti chiedono il perché di quanto sta avvenendo. Ma in luoghi così, risuona forte anche la speranza. Ostinata, resistente, leggera. La speranza che non dice più: “Andrà tutto bene!”, ma “Coraggio! Non temere! Sono con te!”.

 

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