Cara vecchia Africa

Pubblicato il 06-10-2011

di Michelangelo Dotta


Qual è l’Africa di oggi? Quella dei tramonti magici e dei safari o quella del mio vicino di pianerottolo? Forse, in entrambi i casi, è quella che sta aldilà di ogni cliché.

di Michelangelo Dotta

 

Un po’ per scelta, un po’ per lavoro ho sempre frequentato e conosciuto più da vicino il sud del pianeta, le latitudini geograficamente più calde e meno emancipate, quei luoghi dal fascino misterioso che per comune intendimento racchiudiamo nella banale quanto retorica etichetta di “Terzo mondo”.

Per anni ho viaggiato attraverso il continente africano con troupe e telecamere al seguito, riportando a casa le immagini di una realtà che nel nostro Paese era praticamente assente e sconosciuta. Ricordo che 30 anni fa, per realizzare un documentario/inchiesta sulla presenza di africani in città, fui costretto ad ingaggiare un ingegnere senegalese del BIT, fornirlo di tappeto, accendini, kleenex e quant’altro e sistemarlo sotto i portici di via Po in veste di venditore ambulante.

Sin da subito è scattato l’amore per l’Africa, i suoi ritmi, la sua gente, i suoi paesaggi, le sue atmosfere e, nel pieno rispetto della consuetudine che vuole che l’Africa o si ami o si detesti con il medesimo slancio, soffro di mal d’Africa e porto il continente nero perennemente nel cuore. È una sorta di richiamo ancestrale, una voce nascosta in qualche luogo remoto della mente che ti sibila all’orecchio, un profumo che le tue narici riconoscerebbero tra mille, una luce cristallina e tersa che ti riporta al candore dello sguardo di un bambino.

Ora, a distanza di 30 anni, per motivi di studio e d’insegnamento, mi trovo a riprendere in mano i documentari girati in vari Paesi africani per analizzarli e riproporli alla luce dell’oggi, rileggerli e confrontarli al cospetto di una società che si è radicalmente trasformata, è diventata multietnica e cosmopolita, ha codificato religioni, tradizioni, costumi e culture di mondi che parevano destinati a rimanere lontani e irraggiungibili.

Quello che un certo tipo di cinema antropologico-sensazionalista prima e i documentari televisivi poi riportavano e raccontavano dell’Africa in occidente, ha fotografato e immortalato un intero continente nelle sue forme più stereotipate e misteriose, consegnandolo di fatto ad un immaginario collettivo che vive la fascinazione africana, ma al contempo non la comprende e quindi ne ha paura.

Oggi, l’Africa irraggiungibile ci ha raggiunti, vive al nostro fianco, fa ormai parte del sistema e ci osserva da vicino. Indossa i suoi colori, veste i suoi costumi e parla la nostra lingua, ma si esprime con gli occhi, comunica nel silenzio dei suoi sguardi proprio come nelle immagini dei documentari di un tempo. Un tempo in cui l’occidente era solo un goloso miraggio, un sogno lontano, il luogo del benessere e della ricchezza senza fine.

L’Africa è sempre l’Africa, ma noi continuiamo ad avere paura degli immensi tesori che nasconde. Preferiamo guardarla in televisione, a debita distanza, mentre lentamente si dissangua e muore in mille piccole guerre fratricide.

 

 

 

 

 

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