Svetlana: la coscienza di un Paese in lotta

Pubblicato il 22-01-2023

di Claudio Monge

Siamo sovente interpellati sull’attuale crisi russo-ucraina, vista da una prospettiva turca. L’opinione pubblica internazionale segue, attraverso gli organi d’informazione, l’uso propagandistico di questa guerra fatto da una leadership del Paese in cerca di consenso, almeno in politica estera.

I risultati diplomatici sono stati più che modesti, a dispetto di soluzioni che si annunciavano a breve termine, già ben prima dell’estate. Resta notevole, tuttavia, la capacità del presidente turco di utilizzare questo fronte esterno per solleticare la fierezza nazionalista turca, che da oltre vent’anni alimenta con indiscutibile sagacia. Le forti implicazioni turche sul tavolo ucraino come su quello russo, fanno della Turchia una meta obbligata per le vittime di entrambi gli schieramenti in conflitto.

Fin dai primi mesi dell’anno, parecchie migliaia di rifugiati ucraini (che si aggiungono ai milioni di rifugiati che la Turchia da anni accoglie dai fronti di molte altre crisi regionali) hanno trovato rifugio in territorio turco, con uno sforzo particolare, coordinato da Kiev e Ankara, per l’accoglienza di più di un migliaio di bambini, orfani o di famiglie affidatarie, fuggiti dal loro Paese attraverso la Polonia o la Romania.

Ma dall’inizio della guerra, anche quasi mezzo milione di russi, rifugiati politici, attivisti, artisti o intellettuali (cifre impennatesi dopo la mobilitazione parziale decretata da Putin il 21 settembre), si sono precipitati in uno dei pochi Paesi ancora collegati dal trasporto aereo e che non richiede loro un visto d’ingresso. È così che abbiamo ospitato Aleksiej, studente universitario, speranzoso di ottenere un visto per la Francia per completare in suoi studi di ingegneria informatica e, soprattutto, di tenersi lontano dal quasi certo arruolamento nelle file dell’esercito del suo paese.

Ma è la storia di Svetlana che ci ha colpito in modo particolare nelle ultime settimane. Giunta un pomeriggio nella nostra chiesa in Galata, si è subito capito che la sua non era una semplice visita turistica. Parlava un italiano assai fluente e mi ha raccontato frammenti della sua storia di madre, arrivata in Italia senza i suoi figli, sposatasi in seconde nozze a un imprenditore marchigiano. Si trovava, ora, da alcuni giorni a Istanbul per accogliere suo figlio Matfey, ventisettenne ufficiale dell’esercito russo, che ha deciso di disertare per cessare di essere complice di una guerra che usa i giovani russi come carne da cannone. In un primo momento, Svetlana aveva consigliato al figlio di fare il grande passo abbandonando direttamente il fronte ucraino verso la Polonia o la Bielorussia: era pronta ad andare a cercarlo con la mediazione della Croce Rossa Internazionale.

Poi, la fuga dal Paese architettata con due colleghi, per poter condividere gli oneri dell’affitto di un alloggio in terra turca, in attesa di sviluppi positivi nelle trattative per l’ottenimento di un visto europeo. Nelle lacrime di Svetlana, non solo l’angoscia per le sorti del figlio, ma tutto il peso della solitudine di fronte all’indifferenza del mondo, per non parlare della riprovazione nei confronti di migliaia di cittadini russi, pertanto in rotta con la politica del Paese e che stanno pagando le gravi conseguenze di questa loro resistenza.

Nella sua richiesta di parlare con un sacerdote, anche la necessità di ricomporre il rapporto con un Dio, che non può essere ridotto a semplice “protettore di armate”, mobilitate a sostegno di progetti egemonici solo umani. Nelle parole e nel volto di Svetlana, mi è sembrato di scorgere un luminoso esempio di quella che il Nobel per la pace russo Dimitri Muratov, definisce le “spine dorsali” della coscienza di un Paese: vite concrete dove si genera la risposta all’ingiustizia e alla violenza che rifiuta radicalmente entrambe, e che lavorano, con il metodo della nonviolenza, per sovvertirle.

Ho proposto a Svetlana di concludere il nostro incontro con la recita del Padre Nostro. Non lo conosceva in italiano, l’ha ripetuto dopo di me. Era il suo modo per invocare la protezione sul suo marito italiano, al quale, proprio nei giorni della sua trasferta istanbuliota, è stata diagnosticato un cancro. «Gospodj pomilui»! Signore abbi pietà di me.


Claudio Monge
NP novembre 2022

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