Più forte di tutto

Pubblicato il 09-02-2021

di Matteo Spicuglia

La vita è un grande ciclo, è straordinaria, più grande di come la immaginiamo. An­che quando ci chiudiamo nella paura e nella sfiducia, lei ci dà sempre una nuova possibili­tà. Non dobbiamo dimenticarlo mai». Susanna Tamaro ogni volta che parla pesa le parole ma ha il dono di andare diritta al cuore delle cose. Forse è que­sto il segreto che ha fatto di lei una del­le scrittrici più amate in Italia e anche nel mondo. Il suo ultimo libro intitola­to Una grande storia d’amore è l’invito a ripartire dai fondamenti, da quel­la sfida delle relazioni mai in discesa che però dà senso alla vita. La storia è quella dell’incontro di Andrea ed Edi­th, lui capitano molto rigoroso, lei una giovane un po’ trasgressiva. Attraverso di loro, Susanna fa capire come la vita non debba mai essere idealizzata, ma accolta anche quando fa male, perché l’amore non segue la logica dei due cuori e una capanna. «Proprio così. Se c’è una cosa deva­stante della nostra epoca è la senti­mentalizzazione di massa, diventata ormai un paradigma. Fa impressione vedere certi film americani infarciti di tanti “I love you”. Nella realtà le cose vanno diversamente. Non arriviamo a dire “ti amo” o “ti voglio bene” in 30 secondi. Molto più spesso siamo in­capaci di costruire un rapporto ad un livello più profondo, ad accettare una dimensione fatta di luci e ombre».

Andrea ed Edith lo fanno?
«Ci provano. Sono due personaggi che hanno capito che l’amore è bello quan­do c’è la diversità. In questa prospetti­va, ha valore anche un dialogo conflit­tuale che però accetta di crescere nel tempo. Edith è l’immagine dell’inquie­tudine della modernità e della post modernità: una ragazza senza radici e senza una stabilità affettiva alle spalle. Andrea invece è una figura più tradi­zionale, il classico uomo con la testa sulle spalle, con una virilità intesa non come potere, ma come stabilità».

Ancora una volta, il suo interesse è quello di indagare l’animo umano. Da dove nasce questa passione?
«Credo che sia questo il compito della letteratura. Viviamo in un tempo che tende ad esaltare la superficialità. Io credo ancora che un libro, attraverso l’essenzialità della parola, possa aiutar­ci a rientrare nell’umanità, a conoscer­ci meglio, a cogliere aspetti nuovi del cammino, delle nostre relazioni. Ho scritto Una grande storia d’amore pro­prio per questo».

Il libro è un inno alla vita, pubblicato in un momento difficilissimo…
«Sì, volevo ricordare che nella vita pos­siamo scoprire un’energia molto più forte di noi, capace di portarci in luo­ghi inattesi, radicandoci nella speranza che le cose possano davvero cambiare. Dobbiamo avere fiducia nella vita, per­ché solo lì possiamo trovare il bene che sfugge ai nostri occhi. Se lo coltiviamo, cambieremo lo sguardo e vivremo in modo diverso».

Non è facile farlo quando tante per­sone soffrono e muoiono o quando dobbiamo rinunciare alle nostre re­lazioni perché confinati in casa. La pandemia sta facendo questo…
«Sicuramente. Io spero che questa crisi straordinaria ci faccia capire che dobbiamo riappropriarci della nostra umanità, delle basi del nostro esiste­re. Penso a quando prendevo l’auto­bus prima del Covid: nessuno parlava, nessuno si guardava negli occhi, tutti erano in un altrove. Invece la vita è qui, ora. Noi siamo fatti per metterci in gioco nelle relazioni, anche quel­le immediate. Dobbiamo riflettere su questo».

Cosa possiamo imparare da questa esperienza? Il mondo nuovo come dovrà essere?
«Senza dubbio il Covid ci ha spoglia­to di cose inutili. Negli ultimi 30 anni abbiamo vissuto una accelerazione in­credibile nel campo del lavoro, del pro­gresso, della tecnologia. Tutte cose importanti che però hanno anche alterato il nostro rapporto con la vita. Noi pri­ma di tutto siamo esseri umani, figli di una antropologia radicata in migliaia di anni di storia e di evoluzione. Io cre­do che saremo migliori se torneremo ad essere padroni del senso profondo delle cose».

Qual è?
«Per esempio, decidere di non consu­mare e comunicare compulsivamente, ma rimettere al centro relazioni positi­ve e l’amore. Se non si vive così è facile farsi travolgere dalle paure, dall’ansia, dal panico. Al tempo stesso, dobbiamo fare pace con il nostro limite e anche con la morte. L’avevamo rimossa, era il più grande tabù. Pensavamo di essere intoccabili, come se l’esperienza della malattia e della morte non ci riguar­dasse. Il virus ci ha ricordato che non è così. Siamo fisicamente fragili e la nostra idea di onnipotenza si è rivelata per quello che è: finta».

Come si può cambiare direzione?
«Dobbiamo testimoniare il miraco­lo della vita, facendo sì che le piccole morti quotidiane non abbiano il so­pravvento sui nostri giorni. Signifi­ca riportare al centro l’idea che non dobbiamo consumare rapporti, ma costruire relazioni. Viverle, curarle, custodirle. Proprio come avviene in una coppia. O lotti nella diversità per accogliere l’altro, oppure vivi rapporti di sopraffazione. E a quel punto uno dei due soccombe. Dobbiamo allenar­ci, crescere anche attraverso le cadute, ma l’obiettivo deve essere chiaro: par­tire dalle nostre relazioni per costruire un mondo più giusto, più umano. Un mondo meno disumanizzato ed egoi­sta inizia già da noi».

 

Matteo Spicuglia
NP dicembre 2020

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