Mi faccio schifo

Pubblicato il 13-12-2022

di Flaminia Morandi

Mi faccio schifo. Chi non se l’è mai detto? C’è da preoccuparsi casomai per chi non l’ha mai riconosciuto. Gli antichi Padri della Chiesa, da fini psicologi allenati all’introspezione e al silenzio, esultavano per chi arrivava a pronunciare una simile frase: per loro, il faccia a faccia con la propria miseria può essere doloroso, ma è l’unico dinamismo capace di rivitalizzare la vita stagnante di un’anima.

È una forza creatrice di vita nuova. Diceva abba Poemen: «Nello stesso momento in cui l’uomo, avvilito, dice: Ho peccato, paf, tutto è finito». E Giovanni Crisostomo: «Hai peccato? Di’ a Dio: Ho peccato. Che fatica c’è a dirlo?» Appena il pentimento fa capolino con un’ammissione di colpa, istantaneamente comincia la riparazione di quello che il peccato ha distrutto. Dio, in ascolto alla porta del cuore, è sempre pronto a perdonare e a rialzare chi è inciampato. Chiunque: «Ogni età ha bisogno della penitenza, i giovani perché si sottraggano alla passione che arriva, i vecchi perché cambino le cattive abitudini», dice Giovanni Mosco. Ma pentirsi, metanoein, è solo un passaggio.

A volte breve, a volte lungo e faticoso, ma sempre con un inizio e una fine. Il sentimento successivo invece è più complesso, è uno stato interiore che dura tutta la vita, che i Padri chiamano penthos. Il penthos non si riferisce più a un singolo atto: anzi, quando il male compiuto è stato perdonato, peccato è tornare a ricordarlo, perché lo scrupolo uccide la speranza e fa dimenticare l’immensità della misericordia, dice Marco l’Asceta.

Mentre il pentimento riguarda solo te stesso, il penthos piange sui peccati di tutta l’umanità, passata, presente e futura. Il penthos è l’amore di Dio penetrato nel cuore con il perdono, che diventa amore per tutti e dolore per il male di tutti.

Nella mitologia greca, quando Zeus assegna i compiti ai vari dèi, l’unico assente è Penthos. Quando arriva, riceve l’unico incarico che nessuno aveva voluto: dolore e tristezza. Che devono esserci: sopprimerli, come cerca di fare oggi la nostra cultura, può avere gravi conseguenze sulla psicologia umana. Ma Penthos non vuole tormentare nessuno: poiché il dolore c’è, egli consola quelli che piangono di dolore per un amore perduto. Quando il Vangelo venne a contatto con la cultura greca, i primi cristiani furono impressionati da come si arricchiva la vita dello Spirito, seminata su un terreno nuovo.

Il penthos greco divenne il termine per dire un “lutto che genera gioia”, il pianto di consolazione e di gratitudine per il perdono e la pace interiore, mentre il cuore non può smettere di soffrire per il male che affligge il mondo. Per gli antichi monaci il segno del penthos è il “dono delle lacrime”: il “secondo battesimo” che spalanca la porta del cuore e rende più intima e stretta la relazione con Dio e con tutti. Senza lacrime, dicevano, non c’è trasformazione. Solo un volto lavato dalle lacrime del penthos riflette la bellezza immortale della nostalgia di Dio.


Flaminia Morandi
NP agosto / settembre 2022

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