La grande fame

Pubblicato il 20-05-2020

di Marco Grossetti

Emergenza alimentare, l'Arsenale della Pace in prima linea.

 

C’è chi aspetta il suono di un campanello dentro la sua casa, chi rifornisce di doni piccoli depositi che si svuotano alla velocità della luce, chi impreca e maledice il mondo perché non è mai il suo turno. Il telefono suona continuamente, vogliono tutti sapere come e soprattutto quando. L’Arsenale della Pace è il porto dove approdano i naviganti in questo tempo di lockdown. Porto sicuro, ma non per tutti. I più fortunati sono quelli che ringraziano per l’aiuto ricevuto, il loro nome è associato ad una lettera. È la lista degli eletti, coloro che torneranno a casa vincitori, il frigo pieno e il resto della famiglia che accorre a festeggiare l’eroe. Hanno ricevuto una telefonata con giorno, ora e indirizzo a cui presentarsi.

 

Nel sistema di distribuzione il loro nome è associato a una lettera, il lasciapassare per superare i controlli in un tempo in cui la navigazione è vietata a tutte le imbarcazioni. A meno che non si tratti di una questione necessaria e indispensabile. Come sfamare la propria famiglia. È come un appuntamento al buio, la maggior parte di loro mai nella vita aveva dovuto chiedere aiuto per mettere il pranzo insieme alla cena. Un sospiro di sollievo accompagna la piacevole scoperta che non ci sono code interminabili da affrontare per lo sbarco, risse e resse per litigarsi e accaparrassi il pescato. Gli occhi pieni di umiliazione e di vergogna si riempiono di stupore quando il tavolo a loro dedicato si riempie di cibo che riempirà per giorni un’altra tavola, quella di casa. Qualcuno chiama i soccorsi e aspetta un amico o un parente per portare a casa tutto quel ben di Dio che farebbe affondare la sua piccola barca.

 

C’è chi prende la carne anche se non ha il frigo dentro cui conservarla, chi va via trascinandosi una borsa piena di cose da cucinare chiedendosi come fare tornare il gas dentro la bombola, chi confida di non fare la spesa da più di un mese, chi sussurra tristemente di avere perso senza preavviso in questi giorni la dolce metà con cui aveva condiviso una vita. Qualcuno approda lì per caso, trascinato dalla corrente. Ha visto altre persone ricevere quello di cui avrebbe disperatamente bisogno e implora pietà, si aggira con borse e carrelli vuoti che spera di poter riempire per rifornire una stiva desolatamente povera. C’è chi va via rassegnato e chi rimane lì attorno nella speranza di uno sbarco. Si attacca al telefono, 800444404, il numero verde della Protezione Civile, porta d’accesso per ricevere un aiuto e allontanare la maledizione. Chi riesce a prendere la linea, sporge il telefono e implora la mediazione linguistica per dare le giuste informazioni a una gentile impiegata a cui non riesce a trasmettere la propria identità: nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, motivo della richiesta, eventuali aiuti già ricevuti, autocertificazione telefonica dello stato di buona salute. Chi non trova il suo porto sicuro, impreca e maledice il proprio destino attraverso il malcapitato che ha davanti, incolpevole rappresentante di una vita che non è stata affatto buona per lui. Deve telefonare quando avrebbe bisogno di mangiare, aspettare quando lo fa dal momento in cui è venuto al mondo. Qualcuno lo ascolta, ma nessuno lo salva. Va via e speri di vederlo tornare il giorno dopo. Abbinato alla lettera inventata di un alfabeto immaginario, ennesima eccezione da fare per chi in base alle regolari procedure di soccorso, rimarrebbe sempre in un mare grosso e agitato. Nel frattempo, c’è chi aspetta più o meno comodamente a casa in attesa dei rifornimenti. Un signore telefona perché ha bisogno di sapere a che ora esattamente arriverà la sua scialuppa di salvataggio, non ha l’elettricità a casa e come tutti i pomeriggi, vuole sapere quando può andare in chiesa a caricare il cellulare. Quelli che distribuiscono gli aiuti a domicilio girano a bordo di un’imbarcazione che ha un eccezionale permesso, motivato dalla questione necessaria e indispensabile delle persone che devono raggiungere. I soccorritori non hanno solo la fortuna di essere tra quelli che hanno e non tra quelli che sono senza.

 

Hanno il privilegio di dover stare fuori in un tempo in cui tutti sono chiusi dentro, di poter fare qualcosa quando nessuno può fare niente, godono del diritto di contravvenire alle regole per modificare, almeno in parte, il corso di questa storia. Se non altro, la storia della persona che li sta aspettando.

 

Qualcuno intanto telefona chiedendo l’intestatario bancario per una donazione oppure si presenta di persona con un carico prezioso, che per quanto sia abbondante, è destinato ad esaurirsi in fretta, perché in questo mercato la domanda è costantemente superiore all’offerta. La generosità di chi ha di più è l’unica speranza per chi impreca sperando che arrivi finalmente il suo turno e la sua eccezione, per chi reclama l’aiuto di cui ha diritto e bisogno senza sapere quando sarà esaudito. Qualcuno aspetta ancora la sua prima volta, ma anche i più fortunati, quelli che facevano parte della lista degli eletti, sanno che la loro fortuna non è per sempre. Il tavolo su cui si sono serviti non è stato ancora disinfettato e sanificato per poter accogliere un altro navigante come da regolamento. Prima di abbandonare il porto sicuro che hanno appena scoperto, pensano a quanto dureranno le scorte e i rifornimenti e formulano la domanda giusta da fare per poter essere al riparo dalla tempesta che si scatenerà dentro le loro case al prossimo frigo vuoto. Allora abbassano la mascherina perché non possono permettersi malintesi o incomprensioni. Bastano cinque parole per determinare la loro rotta e il loro destino. Quando sarà la prossima volta?

 

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