Italiani mala gente

Pubblicato il 23-08-2020

di Matteo Spicuglia

Fare memoria di una delle pagine peggiori della nostra storia: l’Etiopia aspetta ancora.

 

C’è un’immagine commovente, scolpita nella memoria di un Paese. Marzo 2016, Addis Abeba: la piazza del monumento che ricorda la vittoria degli etiopi sugli italiani. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella depone una corona di fiori, poi si avvicina ad un piccolo gruppo di anziani: i giovani di 75 anni prima, gli ex partigiani che combatterono contro l’invasore italiano. Vedi l’orgoglio e il dolore, i segni di una vita lunga, ma anche di una riconciliazione possibile. Uno di loro fissa negli occhi il presidente di una Nazione all’epoca spietata. Lo guarda negli occhi e lo onora con il saluto militare.

 

I simboli qui non c’entrano. Perché dire Etiopia significa anche oggi fare i conti con un passato terribile che la nostra coscienza nazionale ha completamente rimosso. Certo, l’Italia degli anni ’30 era l’Italia della dittatura, di un’epoca che sentiamo lontana. Verissimo, ma i fatti come le parole sono pietre. Non possiamo girarci dall’altra parte. Per conquistare l’Etiopia e realizzare l’Impero, siamo stati il primo esercito occidentale a usare l’iprite e le armi chimiche su popolazioni inermi, non abbiamo avuto nessuno scrupolo a fare terra bruciata, ad aprire campi di concentramento, per esempio quelli di Nocra e Dadane. Come Chiesa italiana abbiamo benedetto la guerra contro l’eresia ortodossa della Chiesa etiope, come popolo ci siamo fatti galvanizzare da una prospettiva di grandezza.

 

Quasi nessuno ha mai chiesto scusa. Nemmeno per il più grave crimine di guerra commesso dall’Italia. Nato proprio in quella piazza di Addis Abeba, dopo l’attentato del 1937 in cui rimase ferito il viceré Rodolfo Graziani, un criminale di guerra. La rappresaglia voluta da Mussolini e dallo stesso Graziani fu atroce. Per giorni, la popolazione etiope della città fu lasciata indifesa di fronte agli attacchi di formazioni musulmane e bande di civili italiani. Persone uccise, violentate, i numeri ancora sono sconosciuti: 30mila morti secondo fonti etiopi, 3mila secondo quelle italiane. Comunque migliaia. Poi la vendetta servita fredda mesi dopo, quando fu dato l’ordine di passare sotto le armi tutti gli abitanti della cittadella monastica di Debre Libanos, un faro spirituale del cristianesimo etiope, considerato un covo di resistenti da Graziani.  Gli italiani rastrellarono e fucilarono tra i 1200 e i 1600 monaci, compresi novizi e studenti praticamente bambini. Il monastero fu in parte distrutto, tanti corpi non furono nemmeno più trovati. Una vicenda praticamente messa sotto silenzio e finalmente restituita alla memoria dallo storico Paolo Borruso, uscito da poco con “Debre Libanos 1937”, un libro degli orrori. I nostri.

 

La speranza è che venga letto da più italiani possibili, perché il vero perdono passa solo dalla giustizia. Ce lo insegnano il presidente Mattarella, quegli ex partigiani che non si sono fatti fermare dal peso del passato, tutte le persone libere che non hanno paura di guardare in faccia la storia. Sarebbe bello se un giorno, con un gesto eclatante e condiviso l’Italia intera chiedesse perdono, l’ Italia che nei primi anni della Repubblica si rifiutò di estradare in Etiopia lo stesso Graziani, morto serenamente nel suo letto nel 1955 e oggi onorato con un mausoleo ad Affile, suo comune di origine.

 

Fare memoria, chiedere perdono, conoscere. Le uniche armi che abbiamo per ridare dignità alle vittime, agli innocenti che ci chiederanno conto, al dolore che magari ci farà pensare prima di parlare a vanvera di Africa, di noi e di loro. 

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