Il bene fatto bene

Pubblicato il 09-10-2020

di Matteo Spicuglia

C'è una regola di fondo che vale sempre, in piccolo e in grande, per il cuore dell'uomo e per la società nel suo insieme. Una regola essenziale: non si vive di teorie. Tanto meno di parole. Che ci piaccia o no, contano i fatti. Anzi, conta il metodo, la direzione, la strada che decidi di percorrere. Il resto viene. L’Arsenale della Pace lo ha capito dall’inizio. Era un rudere, il lavoro gratuito di migliaia di giovani e adulti lo ha trasformato. Eppure, il valore di questa avventura era molto più grande, radicato nella scelta intima di non seguire schemi rigidi, ma di farsi cambiare i piani dagli imprevisti che si presentavano alla porta.

All’inizio nessuno dei giovani del Sermig avrebbe pensato di accogliere ex terroristi, persone ferite dalla droga o da altre dipendenze, donne con un passato atroce legato alla strada. È stato il campanello a portarle nell’ex fabbrica di morte diventata casa di pace e di speranza. Strumenti sempre diversi: la lettera di un ex terrorista che chiedeva di dialogare per uscire dal suo buco nero; la telefonata di un giudice di sorveglianza che chiedeva di ospitare un giovane detenuto malato di Aids; il dito puntato di un ragazzo che non aveva un posto dove passare la notte; la storia di tanti stranieri non curati che non sapevano a chi rivolgersi. Gli esempi potrebbero continuare. Dall'altra parte, la commozione di persone normali che ogni volta rinnovavano il loro sì, la loro disponibilità. In tutto questo non c’era alcuna forma di sentimentalismo. Da subito, fu chiaro che non sarebbe bastata la semplice buona volontà per dare risposte efficaci. Situazioni complesse richiedevano risposte altrettanto articolate, studio, competenza, nessuna improvvisazione.

Del resto, i primi giovani del Sermig non avevano conoscenze specifiche. Mettersi in gioco aveva senso, ma senza negare i propri limiti. È in quegli anni che nacque un’espressione molto cara a chi conosce la vita degli Arsenali: è possibile uscire da qualsiasi situazione di degrado, purché si accetti «un metodo, una famiglia, una severità».

Metodo e competenza sono le uniche chiavi per affrontare la realtà e problemi più grandi di te. Il Sermig ha cercato di farlo sempre. Per esempio, rifiutando ogni forma di idealizzazione dei poveri. Scriveva Ernesto Olivero in quegli anni: «Nella nostra fantasia malata, il povero è un giocattolo da accudire di tanto in tanto; in qualche momento emotivo diciamo di voler spendere la vita per lui, perché pensiamo che non è giusto essere poveri. 

Ma quando tu lo conosci nella realtà, t’accorgi che a volte il povero ti disturba, è incostante, puzza, è maleducato...; ti accorgi che, anche lui come te, pretende di mangiare ogni giorno, di dormire la notte in un letto, di vestire come te, di mandare i suoi figli a scuola... Vuole essere proprio una persona come te, come noi... E questo povero è diverso da quello dei nostri sogni!». Servire i poveri significava cioè imparare a mettersi davvero nei panni degli altri, un passaggio per nulla scontato.

È per questo che quando furono aperte le prime accoglienze per stranieri, tra cui molti musulmani, il Sermig viaggiò nei Paesi di origine per capire meglio cultura e punti di vista. Così, quando furono aperti gli Arsenali in Giordania e in Brasile, divenne fondamentale la comprensione della sensibilità di quei Paesi, della società locale, della stessa percezione dei servizi che venivano offerti. È il metodo entrato in gioco di fronte a disagi specifici, quando furono accolti ex detenuti, giovani con problemi di anoressia o ferite psicologiche. Il coinvolgimento di esperti, di persone sagge capaci di indicare una soluzione, fu la costante. Perché il bene deve essere fatto bene! Guai ad improvvisarlo! Si otterrebbe il risultato contrario.

Scrive Ernesto Olivero: «Mi incaponisco a cercare di fare bene il bene in ogni cosa, anche la più insignificante. I più grandi sognatori sono quelli che pragmaticamente fanno bene ogni piccola cosa e, poco alla volta, permettono alle idee grandi di entrare nella propria vita. Se non trasformiamo la realtà in sogno diventiamo persone che ruotano intorno al proprio io, ai propri comodi, e lentamente diventano secche, brutte, egoiste. Se abbiamo gli occhi puliti ci accorgiamo che le persone più belle sono quelle che fanno bene il bene, che si donano continuamente agli altri, che con gradualità cominciano a pensare poco o niente a se stesse, ricevendo in cambio il centuplo».

Non sono belle parole. Metodo e competenza passano solo dalla concretezza. Anche questa è una regola che può valere per tutti.


Matteo Spicuglia
NP Agosto - Settembre 2020

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