Ci sono steccati che non arrivano in cielo

Pubblicato il 16-02-2023

di Flaminia Morandi

Unione Sovietica, anni ’80. Padre Aleksandr Men’ si sente dire da un giovane parrocchiano che sta frequentando le assemblee battiste che vuole diventare battista. Padre Men’ gli ricorda che può benissimo restare ortodosso, ma aperto a tutte le altre confessioni. «Troppo scomodo!», gli risponde il ragazzo. Si farà battista.
«Aveva bisogno di un nemico e di una piccola fortezza dietro cui rifugiarsi.
O essere un battista che non riconosce gli ortodossi o un ortodosso che non riconosce i battisti», aveva commentato padre Men’. «C’è una malattia psichica che si chiama agorafobia. Lo zar Pietro il Grande ne soffriva: si faceva costruire delle case piccole, delle camere sempre più piccole. Bè, questa malattia esiste anche nella storia delle religioni!».

L’agorafobia religiosa era uno dei fronti su cui padre Aleksandr Men’ ha combattuto tutta la vita. «Se i cristiani sono divisi è per la loro ristrettezza di vedute. Grazie a Dio, i nostri steccati non arrivano in cielo! », diceva. Lui era nato ebreo, sua madre aveva voluto battezzarlo e il piccolo Alik aveva mosso i primi passi da cristiano in una delle comunità catacombali della Russia, quando alla Chiesa non era neppure permesso eleggere un patriarca. Nei primi anni dell’adolescenza aveva sentito forte il richiamo al sacerdozio. S’era sposato, aveva avuto due figli, non aveva potuto portare a termine gli studi di biologia per la sua “patente” di ebreo.
Scrittore di libri indimenticabili, affascinante predicatore, la sua vita di parroco è stata segnata da spiate, interrogatori del KGB, sospetti per le piccole comunità vive che si riunivano intorno a lui. La mattina del 9 settembre 1990, mentre stava andando a celebrar messa, era stato abbattuto a colpi di accetta. Proprio in piena era Gorbaciov, quando l’aria sovietica stava diventando più respirabile. Il suo assassino? Mai identificato.
Esattamente 32 anni dopo l’omicidio di Men’, al VII Congresso mondiale dei leader delle religioni mondiali e tradizionali in Kazakistan, il patriarca ortodosso russo Kirill è il grande assente mentre papa Francesco dice, come Men’: «Nessuno è straniero nella Chiesa, siamo un’unica famiglia».

Padre Men’ amava profondamente la sua Chiesa, la cultura russa, la santità russa, le icone, i filosofi russi e Vladimir Solov’ëv soprattutto, ma anche il cinema e la letteratura profana di ogni cultura, perché «qualsiasi lavoro creativo è il prolungamento dell’opera divina». Pensava che la sua appartenenza al popolo ebraico fosse “un dono immeritato”.
«Per un ebreo cristiano la parentela di sangue con i profeti, gli apostoli, la Vergine Maria e il Salvatore stesso è un grande onore e una duplice responsabilità». Un ebreo cristiano non smette di essere ebreo, è più profondamente cosciente della vocazione spirituale del suo popolo.
Israele è nato più come comunità religiosa che come nazione e il cristianesimo ha dilatato le frontiere di questa comunità, per farci entrare tutti i popoli. Perciò un cristiano «non vive al caldo», è un testimone che fa di tutto perché nulla e nessuno resti fuori da ciò che è di Dio da tutta l’eternità. Tutti in Dio. Tutti nella divinoumanità di Cristo.
 

Flaminia Morandi
NP novembre 2022

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok