Un problema da amare

Pubblicato il 30-06-2013

di Ernesto Olivero


Vorrei che nessuno morisse da solo, con i suoi pensieri, con la sua disperazione...

di Ernesto Olivero

 

Martedì di quindici anni fa. Una sera di fine inverno. Il giudice di sorveglianza Letizia Brambilla, dopo avermi contattato telefonicamente, viene all’Arsenale della Pace, deve parlarmi. È una bella donna, e per me “bello” non si riferisce solo all’aspetto fisico, ma all’insieme della persona. “Ernesto, mi fai un piacere?”. Agli amici rispondo sempre: “Se è possibile, è già fatto”. Perché ritengo che l’amico mi chieda qualcosa alla mia portata. “Ernesto, c’è un giovane carcerato, malato terminale, che è alla fine. Se lo accogli ti costerà quindici giorni di lavoro e una cassa da morto”. Detto proprio così! In quel momento ho pensato che di aiutare un malato terminale di aids a morire con dignità eravamo capaci. Accetto. Dopo poco dal carcere ci portano Filippo (il nome naturalmente è di fantasia).Quando me lo trovo davanti mi immagino al suo posto, e non faccio fatica a dirgli: “Caro Filippo, perché almeno negli ultimi giorni di vita non smetti di drogarti? La droga è m…!”. Filippo accetta questa sfida. Noi facciamo quello che possiamo, non lo lasciamo mai solo. Sono passati gli anni e Filippo è ancora vivo.

Un altro caso, sempre dal carcere. Ci propongono di accogliere una ragazza. Altezza 1,65. Peso 32 kg. Era ricoverata nel repartino per detenuti dell’ospedale Molinette di Torino. Per poterla ospitare con la dignità che si deve ad ogni persona, abbiamo inventato un’accoglienza in cui diciotto volontari turnavano ventiquattro ore su ventiquattro. È vissuta ancora due anni. I pochi giorni di vita che le avevano dato sono diventati due anni, tempo in cui ha potuto riconciliarsi con se stessa, con il suo corpo, con la sua famiglia.

Recentemente in Libano ho visto con i miei occhi bombardamenti “chirurgici” che non hanno sbagliato di un centimetro. Sappiamo che possiamo vivere nello spazio, sulla Luna, su Marte. Viviamo quindi in una società che sa fare molte cose. Peccato che non sia ancora stata in grado di rendere i marciapiedi agibili ai disabili, peccato che una persona che vive in carrozzella non possa salire su un tram da sola, senza aiuto. Peccato che per salvare una vita dobbiamo comprare un organo, magari rubato a un bambino. Peccato!
Io voglio una società dove un problema che capita ad un uomo, ad una donna, ad un bambino, ad una bambina diventa l’opportunità per la società di amare perdutamente quel “problema”.
Vorrei che nessuno morisse da solo, con i suoi pensieri, con la sua disperazione. Vorrei. Perché non possiamo?

 

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