Pax africana

Pubblicato il 02-08-2021

di Renato Kizito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflettevo sulla storia re­cente del Sudan da cui mi sembra si possano impa­rare alcune lezioni sulla questione di un processo di pace che coinvolga veramente tutti gli attori. Dopo una lunga guerra tra governativi e indipendentisti del Sud Sudan, nel 2005 si è raggiunto un ac­cordo di pace che prevedeva sei anni di attesa per poi arrivare nel 2011 a un referendum per decidere se il Sud si sarebbe staccato o no dal Nord. L’ac­cordo venne raggiunto per una "impo­sizione diplomatica" – il Sudan sarebbe stato altrimenti messo completamente al bando dalle Nazioni civili – era chia­ro che le due parti non volevano rag­giungere la pace. Questo ha minato in partenza il dopo.

Raggiunto l’accordo, è partita una iniziativa molto bella: le ONG inter­nazionali e anche le Agenzie ONU, temendo futuri conflitti, hanno soste­nuto, organizzato e svolto una miriade di piccoli workshop, incontri a livello locale, regionale, di contea o degli Stati in cui il Sud Sudan è diviso, per cerca­re di ricostruire un tessuto di pace alla base. Un lavoro grande, costato molta energia, molta fatica e molti soldi. Ma che, secondo me, col tempo si è pur­troppo mostrato inutile, perché non c’è stata la volontà dei leader di favorirlo, di entrarne a far parte. E in situazioni storicamente difficili, dove si è creato un antagonismo etnico profondo, con capi che non hanno un programma politico ma solo l’obiettivo di difen­dere il potere della loro tribù, è chiaro che tutto questo lavoro fatto alla base non funziona. E infatti quando nel 2013, dopo la separazione, i due gran­di leader hanno "litigato", si è scatena­to subito il finimondo. Ė bastato che i leader chiamassero alla guerra, e la guerra è stata scatenata.

Anche quando nuovamente si è mo­bilitata la comunità internazionale, e addirittura papa Francesco ha fatto quel gesto clamoroso invitandoli in Vaticano, mettendosi di fronte a loro, questo non è bastato. Se restano le at­tuali leadership, è difficile che si possa arrivare ad una pace stabile. Tante le ragioni, ma ovviamente anche perché sono personaggi sostenuti da potenze straniere; se fossero stati abbandonati forse la situazione si sarebbe risolta, ci sarebbe stata una soluzione locale.

In quegli anni dal 2005 al 2011 sarebbe stata importante una attività per riap­pacificare i leader. Se ci fosse stata que­sta azione, con gesti importanti, forse si sarebbe potuto saldare la volontà di pace della gente e quella dei leader. Ma finché questi personaggi saran­no spalleggiati da interessi politici ed economici esterni, sarà molto difficile arrivare ad una pace in Sud Sudan. Le risorse in Africa sono diventate una disgrazia… si sa quali siano gli interes­si per il molto petrolio dietro le parti in conflitto, non solo Stati ma anche sem­plici compagnie interessate a mettere le mani sul potenziale di sviluppo del Sud Sudan.

La gente che vorrebbe la pace a livello di base è impotente, non ha la forza, gli strumenti, la tradizione, per poter in qualche modo forzare i loro leader alla pace. Mentre le influenze esterne giocano sulle divisioni interne. Fatto è che, storicamente, il colonialismo ha consegnato queste povere masse afri­cane in mano a dei delinquenti incal­liti.

Il caso del Sudan è emblematico ma se ne potrebbero fare anche tanti altri; ad esempio quello dell’Uganda dove c’è la pace perché non è possibile alcuna forma di opposizione, spariscono le persone… la gente si trova impotente davanti a questa situazione.

Storie simili possono infatti avere svi­luppi diversi. In Kenya agli inizi degli anni ’90, ci sono stati gravi scontri tri­bali, con centinaia di vittime, e gente che fuggiva da zone dove aveva passa­to tutta una vita; era uno scontro so­stanzialmente tra Kalenjin e Kikuyu, nel cuore della Rift Valley. Noi, come tanta gente di buona volontà, abbiamo fatto alcuni workshop, mettendo assie­me capi villaggio di zone dove c’erano stati gli scontri, ed era chiaro che tut­ta la gente comune sempre voleva la pace, volevano coltivare i loro pezzi di terreno, continuare a pascolare i loro animali. Questo ci lasciava sempre sorpresi perché sembrava di sfondare una porta aperta. Ricordo un anziano che alla conclusione di uno di questi colloqui disse più o meno: «Vedete, in passato c’erano scontri, in genere tra pastori che pascolavano le loro capre e i coltivatori cui veniva mangiato il grano; ma avevamo dei modi per ri­trovarci, per pregare insieme, per fare dei sacrifici e per rimetterci in pace. Poi magari dopo qualche tempo suc­cedevano altre cose, ma c’era modo di fare questo ancora. Adesso non c’è più, perché i nostri riti andavano bene per gli spiriti malvagi locali; con i nostri riti tenevamo sotto controllo i diavoli locali, ma questi sono diavoli esterni, sono diavoli che vengono da fuori, e noi non siamo più capaci di control­larli». Questo è un po’ anche quello che è successo, sta succedendo in Sudan.

Lo scontro tra Kalenjiin e Kikuyu venne superato perché uno dei leader politici, in preparazione delle elezio­ni del 2012 – l’attuale presidente del Kenya, Uhruru Kenyatta – con tutti i suoi limiti, quando si rese conto che non avrebbe potuto vincere le elezioni col sostegno solo della sua gente, ebbe l’idea geniale: tese la mano al capo dei Kalenjin il suo peggior nemico, si allearono politicamente, e insieme sconfissero tutti gli altri. Per dieci anni, questa coalizione, tra coloro che erano prima nemici acerrimi, è andata al po­tere: quindi sono stati capaci di fare la pace.

Ha saputo uscire dalla prigione dello schema amici-nemici, lo ha superato.

Questo diventa difficile in contesti in cui c’è il timore che l’avversario se do­vesse andare al potere prende tutto, come in Sud Sudan. Sono strumenti che producono un sistema di demo­crazia, di politica, che in Sud Sudan non è ancora stato recepito e padro­neggiato. Ci sono anche molti altri elementi, queste sono considerazioni a volo d’uccello, ma è certo che biso­gna costruire la pace in questi contesti. Che si aggravano sempre di più, per­ché ogni anno che passa ci sono più persone del mio clan che sono state uccise dall’altro clan, ogni anno che passa questa divisione si incattivisce, diventa più profonda, difficile da supe­rare. È un’opera che chiede una grande fede, una grande speranza, una grande fede in Dio e nell’umanità che possa perfino tirarsi fuori da situazioni così difficili così piene di odio, superando l’odio.

La Chiesa ha fatto un lavoro molto importante per costruire un tessuto di pace, particolarmente in Sud Su­dan. La storia purtroppo non perdona, sono stati fatti degli errori enormi, co­minciando dalla divisione dell’Africa nella Conferenza di Berlino ad oggi; gli errori fatti sulla pelle degli africani sono enormi: gli africani li pagano tut­ti, ma poi alla fine rischiamo di subirli tutti insieme. Perché questo odio, que­sta divisione, non fa bene a nessuno, ovviamente.

Gli attori esterni dovrebbero far va­lere il loro peso per costruire accordi, facendo in modo che le dinamiche in­terne arrivino a cercare una soluzione efficace. Continuando però poi a con­trollare una crescita vera e non abban­donare il Paese in mano a chi la pace non vuole.

Noi dobbiamo lavorare a lungo ter­mine sulla costruzione di una cultura di pace, di una cultura di convivenza. Nei Paesi africani dove ci sono queste situazioni, la Chiesa deve focalizzare tutti gli sforzi per educare al rispetto degli altri, alla convivenza pacifica, per educare alla pace insomma. L’attività pastorale più importante della Chiesa oggi in Africa è educare alla pace.

NP Aprile 2021

Renato Kizito Sesana

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