Onore al merito

Pubblicato il 10-08-2011

di Loris Dadam

In questo articolo dedicato all’esclusione dei giovani dalle stanze dei bottoni (grandi o piccole che siano), l’autore prova ad individuare alcune vie d’uscita.
di Loris Dadam
 
La tesi fin qui sostenuta è questa: la generazione del ‘68, giunta ormai al potere e alla soglia della pensione, piuttosto che ritirarsi in qualche posto ameno a leggersi un buon libro e lasciare le responsabilità di governo alle generazioni successive, preferisce mantenere i figli a sesso, droga e rock-and-roll fino ad età avanzata, purché stiano alla larga dai posti di comando e non mettano in discussione le sedie su cui tanto comodamente stanno seduti i genitori.
Questa tesi sarà pure estremistica e come tutte le tesi ha delle eccezioni, ma è anche l’unica che spiega i fenomeni politici e sociali del nostro Paese: la classe politica più vecchia d’Europa, le carriere per anzianità, la scuola e l’università in mano a professori sempre più vecchi - e gli studenti escono impreparati - lo scarso investimento che fanno le imprese sui giovani nuovi assunti, il dilagare dell’industria dell’intrattenimento giovanile, nei suoi aspetti legali (musica, tv, spettacoli) ed illegali (droga, alcool), con le conseguenti morti del sabato sera…
 
Come rimettere in pista la generazione degli under 40? Sicuramente non avverrà per il ritiro spontaneo degli ex sessantottini, in quanto questi si ritengono (udite, udite!), in quella che Marcuse avrebbe chiamato la loro falsa coscienza, i più furbi ed intelligenti di quant’altri in circolazione e, quindi, indispensabili. Quante volte, avendo proposto ad amici e conoscenti di candidare un giovane a qualche carica pubblica importante (Sindaco di Torino, per esempio), mi sono sentito rispondere: “ma questi non capiscono niente!”. Quindi, cari ragazzi, la via dovrete trovarvela da soli, con la vostra forza e la vostra intelligenza. Stabilito il da farsi (insediarsi nei posti di responsabilità), resta da stabilire il non semplice problema del come. In ogni società esistono dei meccanismi di mobilità sociale, che, a certe condizioni, permettono anche ai più disagiati di raggiungere posizioni di responsabilità. Questi meccanismi, bisogna saperlo, non sono un regalo graziosamente elargito un giorno dalle loro maestà, ma sono state una delle conquiste di duecento anni di lotte per l’emancipazione delle classi subalterne. Sono poi diventati senso comune, quando si è accettata la realtà che l’intelligenza non era un derivato dal censo o dalla nascita, ma che era molto più presente ed attiva fra il popolo.
 
L’Italia ha un problema in più. Le classi dirigenti hanno inventato un sistema infallibile per il controllo della mobilità sociale: la cooptazione. Quando si intende promuovere qualcuno, od inserirlo in qualche organismo dirigente, lo si fa per chiamata dall’alto. Il gruppo dirigente non viene messo in discussione attraverso il voto, ma, chiuso in se stesso, secondo la propria convenienza, decide di inserire al suo interno qualche nuova figura, quasi sempre un raccomandato, un parente, un fidato portaborse. Il detto popolare che, in Italia, per fare qualsiasi cosa sia necessario avere un santo in paradiso, nasce da questo sistema, che vede unita destra e sinistra, pubblico e privato. La maggior parte delle lotte a cui assistiamo sono causate da contrasti all’interno dello stesso gruppo dirigente su chi cooptare (il parente mio o il raccomandato tuo).
 
Per rovesciare questo sistema è necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, che premi i bravi, i creativi, quelli che propongono nuove idee, rispetto ai figli dei mammasantissima. Questo comporta un rovesciamento dei valori che la società e la scuola premiano: medici, ingegneri, artigiani... devono avere presso i giovani una considerazione sociale superiore a quella di veline, letterine o partecipanti ai vari grandi fratelli. E chi si laurea con 110 e lode deve essere pagato di più di chi partecipa ad un talk-show. La prima rivoluzione è rimettere dunque la realtà sui propri piedi, ristabilire una scala di valori sociali corrispondenti al reale: chi cura gli ammalati, fa ricerca scientifica, inventa o costruisce cose utili all’umanità, nella scala sociale deve avere una maggior considerazione di chi fa il disk-jockey o vende chiacchiere in televisione.
 
La condizione perché ciò avvenga passa attraverso la scuola, che deve recuperare i sistemi di valutazione meritocratici (se chi studia ha gli stessi risultati di chi non studia, nessuno avrà incentivi a farlo) e, soprattutto, i sistemi di insegnamento che facciano uscire dei ragazzi culturalmente preparati. Chi esce dall’università deve essere il portatore dei massimi livelli di cultura del Paese, non, come ora, un disoccupato intellettuale. Inutile sottolineare che questa rivoluzione culturale presuppone il prepensionamento di tutti gli insegnanti ex-sessantotto che, invece che essere diffusori di conoscenza, assecondano la cultura giovanile imperante, realizzando così nei fatti quella tolleranza repressiva di cui parlava Marcuse (sempre lui!) ai nostri tempi.
 
Il più potente sistema di mobilità sociale, nella nostra società, è la partecipazione al sistema associativo ed alla vita politica: sindacati, associazioni di categoria, partiti politici. Tutti questi non godono di grande popolarità presso i giovani, ma, bene o male, sono gli strumenti della democrazia e, fino ad oggi, non ne sono stati inventati di nuovi. Una partecipazione di massa di giovani potrebbe, ad esempio, svecchiare i sindacati, oggi egemonizzati dai pensionati, e costringerli ad occuparsi seriamente del futuro delle nuove generazioni. La stessa partecipazione dovrebbe avvenire per i partiti, in quanto sono loro che decidono gran parte della classe dirigente del Paese, dal governo centrale agli enti locali, ad un numero imprecisato di presidenze ed amministratori di società, enti e banche.
 
In questi anni, dopo tangentopoli, i partiti sono stati screditati, non rappresentano più un’attrattiva per i giovani, e sono stati abbandonati nelle mani degli attuali sessantenni, che, ben contenti, hanno occupato tutti i posti disponibili, e si sono ben guardati dal porsi il problema del cambio generazionale (se non per lanciare qualche figlio o parente). Ma proprio perché così esangui e delegittimati, i partiti possono essere un ottimo spazio da occupare da parte di gruppi consistenti di giovani, che intendono portare il proprio entusiasmo nella vita pubblica per rinnovarla e svecchiarla. Per chi voglia percorrere questa strada, vale però la pena ricordare il detto di Brecht: “Quando il popolo si muove, il nemico quasi sempre marcia alla sua testa”.
Loris Dadam

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok